venerdì 24 settembre 2010

diario senza inizio. nota 1. fare con niente


Da bambina non riuscivo a tracciare una linea semplice e netta su di un foglio da disegno del quale mi piaceva la grana e il candore, come pure non riuscivo a tagliare un semplice fazzoletto in un tessuto nuovo... La bambina taglia e ritaglia. Non la smette più di tagliare. "Da una rapa non si cava il sangue" mi diceva mia madre in dialetto provenzale per dare maggiore forza al suo dire. Ho ancora vivo il ricordo di quei pomeriggi ardenti e febbrili cui davo il mio primo colpo di forbici in un immenso pezzo di stoffa, più sfuggente e traditore del mediterraneo... Presto però di quella immensa tela non restavano che brandelli. Mi accanivo ancora, bucavo l'ultimo quadratino, il francobollo con il quale - così mi pareva - avrei potuto fare ancora un oggetto. Poi, disperata e con il viso coperto di lacrime, raccoglievo tutta quella filaccia e scappavo via. No, mai e poi mai, ne sarebbe uscito qualcosa! Niente sarebbe uscito da me! Mia madre, che mi condannava aveva ragione. Le mie sopracciglia, le mie unghie, i miei capelli, non appena ci mettevo le forbici, tutto si riduceva a niente. Gioco tragico di bambina, che, in seguito, si accaniva ugualmente nel vestirsi per salvare la faccia. A questa condanna materna senza appello faceva da contrappunto un complimento che assaporavo in continuazione: "Questa piccola riesce sempre a far qualcosa con niente".
Mi piace molto questo brano e torno spesso a rileggerlo ne “L’abito e il suo fantasma”, un piccolo saggio, molto denso e pieno di affetto, che Massimo Recalcati ha scritto in ricordo di Gennie Lemoine, definita una delle figure più importanti della psicanalisi contemporanea. I pensieri di Lemoine servono a introdurre quella che Recalcati chiama una passione tutta femminile, la passione del vuoto. Se qualcuno come Sartre ha potuto pensare ne “L’essere e il nulla” che la passione umana di "riempire", occludere il vuoto,  chiudere le fessure, è una passione fondamentale della realtà umana,  forse, suggerisce Recalcati, si può aggiungere che questa passione si declina essenzialmente al maschile, il  fantasma di cui parla Sartre è un fantasma di appropriazione maschile. E' anche grazie ai lavori di Gennie Lemoine  che sappiamo che esiste una rischiosa passione femminile per il vuoto, passione che ha molto a che fare con l’atto del creare, con il “fare con niente”. Il lavoro febbrile della bambina che prova a ritagliare qualcosa dal vuoto, mettendo alla prova la sua capacità di generare, è accompagnato dal rischio che si corre a frequentare una  zona di confine: i bordi  tracciati dalle forbici, inseguiti con accanimento in brandelli di tessuto o di carta sempre più piccoli. Rischio che porta con sé piacere e angoscia, che spinge e che blocca l’immaginazione  (la scena in cui la bambina cede alle lacrime e si dà alla fuga con tutta quella “filaccia”).
E’ il desiderio di togliere le forme dal vuoto che spiega, a partire da questa posizione di Lemoine, la concentrazione in cui vediamo immersi i bambini quando ritagliano, appiccicano e costruiscono manufatti fragili, instabili, quasi sempre temporanei. E’ questo che  spiega il loro risentimento  quando maldestramente un grande, riordinando, confonde “l’opera” con la filaccia... E forse è un po' troppo schematico identificare il pieno con il maschile, il vuoto con il femminile, forse è un po' estremo legare la cifra della creatività femminile a questo sentirsi "quasi niente" a cui certa psicanalisi la  condanna, ma certo riconosco in questo "fare con niente" qualcosa che appartiene al fare delle donne. Un fare meno affermativo, meno saturo di sé, un fare sapiente che spesso lascia le cose incompiute, imperfette, in divenire. Un fare che  nel quotidiano allestisce, prepara, a volte decora. Il fare antico, delle tessitrici, ad esempio, per cui i pieni e i vuoti sono modi diversi di far passare il filo, di organizzare un complicatissimo movimento con materiali a volte quasi invisibili, ma resistenti, come la seta, gli affetti, i legami.
Un fare controverso, mai innocente, potente  anche quando agisce  per sottrazione. Un fare che resta, anche non visto.
Penso a tutto questo guardando i lavori di Beatrice, guardando le sue talee, libri che diventano progetti, paesaggi, giardini, forme impreviste, “fatte con niente”.


Massimo Recalcati, "L'abito e il suo fantasma" in Lo psicanalista e la città. L'inconscio e il discorso del capitalista, Manifestolibri, Roma 2007

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