1° tappa: Libreria Il terzo luogo, Sarzana


Talee letture: 1° tappa

Le letture che si alterneranno il giorno 12 proverranno da due libri
“I Nomi”,  Don De Lillo
“L’uomo che piantava gli alberi”, Jean Giono

I lettori leggeranno una pagina a testa alternando i due testi.
Sulle ultime battute della lettura il lettore per dare un segno dell’alternanza si alzerà lasciando il posto all’altro lettore mentre il lettore successivo  entrerà immediatamente con l’altra lettura.
E’ importante non lasciare pause tra una lettura e l’altra

Ordine letture:

incipit             Giono                Beatrice Meoni
lettura 1          De Lillo             Emiliano Poddi
letttura 2         Giono                Benedetta Marietti
lettura 3          De Lillo             Eleonora Sottili
lettura 4          Giono                 Mauro Sculli
lettura 5          De lillo               Chiara Lasagni
lettura 6          Giono                Ilaria Mariotti
lettura 7          De Lillo              Lorenzo Mucci
lettura 8          Giono                 Alessandro Lana

E’ gentilmente richiesta la presenza dei lettori dalle 18,30 per concordare o verificare eventuali  problemi. E’ richiesta puntualità.
Il testo verrà fornito ai lettori il giorno prima della lettura.
La lettura sarà videoregistrata e il materiale usato per l’installazione finale.
Beatrice Meoni inizierà  le letture  e il proprietario della libreria la concluderà.
Non ci sarà alcuna presentazione dei libri letti, una nota dei nomi dei lettori e dei testi sarà esposta in libreria.
Le letture si concluderanno con un piccolo rinfresco.

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INCIPIT

Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali, bisogna aver, la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni: Se tale azione è priva di ogni egoismo, se l’idea che la dirige è di una generosità senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo allora senza rischio d’errore, di fronte a una personalità indimenticabile.




LETTURA 1
Per molto tempo mi tenni lontano dall'Acropoli. Mi intimidiva, quella rocca tetra. Preferivo vagare nella città moderna, imperfetta, chiassosa. Il peso e l'importanza di quelle pietre lavorate rendevano arduo il compito di visitarle. Così tante cose convergono in quel punto, tutto ciò che abbiamo salvato dalla follia: bellezza, dignità, ordine, proporzione. Una visita del genere era molto impegnativa.
Poi c'era la questione della sua fama. Mi immaginavo arrancare per le strade sconnesse della Plaka, oltre le discoteche, i negozi di borse, le file di sedie di bambù. Lenti, da ogni curva, in ondate di suono e di colore, apparivano turisti con scarpette da ginnastica a righe, sventolando cartoline, i cultori dell'ellenismo, che si affaticavano a salire, visibilmente scontenti, che si mischiavano in una sola fila ininterrotta su fino all'ingresso monumentale.
Quanta ambivalenza nelle cose che esaltiamo. Le disprezziamo sempre un po'.
Ed io continuavo a rimandare la visita. Le rovine si ergevano dal traffico sibilante come un monumento di speranze fallite. Se svoltavo in un angolo, segnando il passo tra compratori che si facevano largo a gomitate, era lì, quel marmo abbronzato a cavallo della sua massa di schisto e calcare. Se scansavo un autobus stracolmo, era lì, al limite del mio campo visivo. Una notte (e qui entriamo nel tempo narrativo) ero alla guida di un'auto con alcuni amici, di ritorno da Atene dopo un'allegra cena al Pireo e ci ritrovammo spersi in una zona indeterminata quando svoltai bruscamente in una strada a senso unico, contromano, ed eccolo ancora lì, proprio di fronte, il Partenone, illuminato a giorno per chissà quale occasione, forse una festa oppure le solite celebrazioni estive, galleggiava nel buio, un fuoco bianco di una tale chiarezza e precisione che ne fui scosso e frenai bruscamente, mandando i miei passeggeri a sbattere nel cruscotto o nei sedili anteriori.
Per un attimo restammo lì, contemplando questa visione. Era una stradina fatiscente, negozi chiusi e demolizioni, ma gli edifici sul fondo facevano da perfetta cornice al tempio. Qualcuno disse qualcosa dal sedile posteriore, ed ecco che un'auto ci veniva contro, suonando all'impazzata. Il guidatore cacciò un braccio dal finestrino per gesticolare, poi apparve la testa e l'uomo iniziò a urlare. La struttura era sospesa su di noi come un lampadario stellare. Gettai uno sguardo ancora, poi uscii dal vicolo in retromarcia.
[...]
Vivevo in un zona residenziale che si snoda attorno ai pendii più bassi della collina del Licabetto. La maggior parte dei miei conoscenti viveva lì o nei paraggi. Le ampie terrazze rigurgitano di gelsomino e lantana, la vista è panoramica e i caffè sono pieni di fumo e chiacchiere fino all'alba. Un tempo gli americani venivano in posti come questo per scrivere, dipingere e studiare, per scoprire lo spessore delle cose. Oggi facciamo affari. Mi versai una soda e sedetti fuori per un po'. Dalla terrazza la città si stendeva fio al golfo in alture e depressioni annerite, un villaggio ininterrotto di cemento. In certe rare notti, per via di chissà quale fenomeno armosferico, si potevano udire gli aerei decollare laggù vicino al mare. Era un rumore misterioso, pieno di bisbiglii concitati, un rombo carico che solo dopo un po' si definiva come un qualcosa di diverso da uno sconvolgimento naturale, un evento precipitoso e senza nome.
Il telefono squillà due volte, poi smise.
Naturalmente, ero spesso in volo, per noi tutti era così. Eravamo una subcultura, affaristi in transito, invecchiavamo in aeroporti e aerei. Eravamo esperti di percentuali, di sicurezza, nell'umorismo della morte fiammeggiante.; sapevamo quale compagnia faceva star male con il suo cibo, quali voli erano in coincidenza; conoscevamo i vari velivoli e i loro profili e li confrontavamo alle distanze da percorrere; riuscivamo a distinguere tra diverse categorie di maltempo e a metterle in relazione con il sistema orientativo dell'aereo su cui ci trovavamo; sapevamo quali aeroporti erano efficienti, in quali si attendeva un'eternità e quali erano dominati dal caos, quali avevano il radar e quali no, quali avrebbero potuto essere pieni di pellegrini di ritorno dalla Mecca. Non eravamo mai presi alla sprovvista se sull'aereo c'era assegnazione libera dei posti, riconoscevamo subito le nostre valigie nei casi in cui i bagagli venivano lasciati sulla pista e non ci spavetavamo se durante l'atterraggio venivano predisposte le mascHere ad ossigeno. A vicenda ci davamo informazioni su quali remote città fossero ben tenute e quali invece erano famose per le mute di cani che le percorrevano di notte, o per la presenza di cecchini nel centro commerciale in pieno giorno. Ci raccontavamo dove ci fosse bisogno di firmare un documento legale per poter ottenere da bere, dove non si poteva mangiare carne il mercoledì e il giovedì, dove bisognava scansare un uomo con un cobra uscendo dall'albergo. Sapevamo dove vigenva la legge marziale, dove le persone venivano perquisite regolarmente, dove era di casa la tortura, dove si sparava per aria ai matrimoni con fucili da guerra e dove si rapivano i dirigenti per un riscatto. Questo era l'umorismo dell'umiliazione personale.
- E' come l'impero, - diceva Charles Maitland – Opportunità, avventura, tramonti e morte nella polvere.
Lungo una costa nordica al tramonto, una sommessa luce dorata nasce dall'acqua, si allarga a ventaglio sui laghi e traccia fiumi sinuosi verso il mare, ed eccoci di uovo in viaggio, instupiditi e ignari della remota bellezza sotto di noi, della terra d'ardesia e la pianura che ci lasciamo alle spalle, attraverso fasce di pioggia nella notte. Per noi questo tempo è del tutto perso. Non ce ne ricordiamo.  Non ne riportiamo impressioni e sensazioni, nessuna voce, nulla del potente vento sollevato dall'aereo sulla pista, o del rumore sommesso del motore in volo, o delle ore di attesa. Nulla ci resta attaccato oltre al fumo nei capelli e sugli abiti. E' tempo morto. Non è mai esistito finché non esiste di nuovo e dopo non è mai esistito.

In due tappe di battello arrivai a Kouros, un'isoletta sconosciuta delle Cicladi. Mia moglie e mio figlio vivevano lì in una casetta bianca con i gerani piantati in lattine d'olio d'oliva sui bordi del tetto e senza acqua calda. Era perfetto. Kathryn scriveva relazioni sugli scavi archeologici nell'estrema parte sud dell'isola. Nostro figlio, di nove anni, lavorava a un romanzo. Tutti occupati a scrivere. Tutti a scribacchiare.


LETTURA 2
Una quarantina circa di anni fa, stavo facendo una lunga camminata, tra cime assolutamente sconosciute ai turisti, in quell’antica regione delle Alpi che penetra in Provenza.
Essa comprende tutta la parte settentrionale del dipartimento delle Basse Alpi, il sud della Drome e una piccola enclave della Valchiusa.
Si trattava, quando intrapresi la mia lunga passeggiata in quel deserto, di lande nude e monotone, tra i milledue e i  milletrecento metri di altitudine. L’unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda selvatica. Attraversavo la regione per la sua massima larghezza, e dopo tre giorni di marcia, mi trovavo in mezzo a una desolazione senza pari. Mi accampai di fianco allo scheletro di un villaggio abbandonato. Non avevo più acqua dal giorno prima e avevo necessità di trovarne. Quell’agglomerato di case, benché in rovina, simile a un vecchio alveare, mi fece pensare che dovevano esserci stati, una volta, una fonte o un pozzo. C’era difatti una fonte, ma secca. Le cinque o sei case, senza tetto, corrose dal vento e dalla pioggia, e la piccola cappella col campanile crollato erano disposte come le case e le cappelle dei villaggi abitati, ma la vita era scomparsa.
Era una bella giornata di giugno, molto assolata ma, su quelle terre senza riparo e alte nel cielo, il vento soffiava con brutalità insopportabile. I suoi ruggiti nelle carcasse delle case erano quelli di una belva molestata durante il pasto.
Dovetti riprendere la marcia. Cinque ore più tardi, non avevo ancora trovato acqua e nulla mi dava speranza di trovarne. Dappertutto la stessa aridità, le stesse erbacce legnose. Mi parve di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera,  in piedi. La presi per il tronco d’un albero solitario. A ogni modo mi avvicinai. Era un pastore. Una trentina di pecore sdraiate sulla terra cocente si riposavano accanto a lui.
Mi fece bere dalla sua borraccia e poco più tardi, mi portò nel suo ovile, in una ondulazione del pianoro. Tirava su  l’acqua,  ottima, da un foro naturale, molto profondo, al disopra del quale aveva installato un rudimentale verricello.
L’uomo parlava poco, com’è nella natura dei solitari, ma lo si  sentiva sicuro di sé e confidente in quella sicurezza.



LETTURA 3
Owen Brademas diceva spesso che anche ciò che sembra casuale assume un aspetto ideale e giunge a noi in forme pittoriche. E' tutta una questione di saper vedere, ed egli vedeva un disegno nelle cose, vedeva momenti nel flusso.
La sua pena era radiosa, quasi ultraterrena. Sembrava avere un contatto col dolore. Come se questo fosse un strato dell'essere da cui aveva imparato ad attingere. Si esprimeva con il dolore e attraverso esso; persino nella sua risata c'era una punta di desolazione. Se tutto ciò a volte poteva sembrare eccessivo, pure, non avevo mai dubbi sulla natura impietosa di ciò che lo perseguitava, qualsiasi cosa fosse. Tutti e tre passavamo ore a parlare. Io studiavo Owen, tentavo di capire chi fosse. Lui possedeva una forza mentale che era sconcertante, credo che ci facesse sentire parte dei fortunati e banali oggetti del mondo. Forse pensavamo che la sua rovinosa vita interiore fosse una forma di devastante onestà, qualcosa di unico e coraggioso, una condizione che per fortuna noi avevamo evitato.
Owen era un uomo naturalmente affabile, sottile, dal passo lungo.  A mio figlio piaceva la sua compagnia e io fui un po' sorpreso dalla velocità con cui Kathryn sviluppò per lui un sentimento di affetto, una calorosa stima, o che altro una donna oltra la trentina può provare per un uomo di sessant'anni con un accento dell'ovest e il passo lungo.
La voracità di lei nel lavoro lo sorprese e confuse. Lei ci si buttò come una ragazzina, e questo sembrava fuori luogo in un progetto quasi in via di estinzione come quello.
Era uno scavo che non sarebbe mai stato oggetto di pubblicazione. Dei quaranta assistenti che c'erano alla mia prima visita, ora ne restavano nove. Nonostante ciò, lei lavorava, imparava e aiutava a far andare avanti le cose. Penso che a Owen piacesse il senso di vergogna che lei gli faceva provare, quando emergendo da una delle sue nuotate a mezzogiorno, la trovava sul fondo di uno scavo abbandonato, che agitava il piccone. Il sole cocente si accaniva su di lei, il vento soffiava oltre. Tutti quanti gli altri erano nell'uliveto a far colazione all'ombra. Il suo comportamento era una preziosa dissonanza, un qualcosa di intimo, puro, inatteso, come un momento del passato di lui che gli si accendesse in mente nel ricordo. Me lo immagino in piedi sull'orlo dello scavo con un asciugamano intorno ai fianchi, in logore scarpe da tennis, che si abbandona a una risata piena, un suono che mi ha sempre colpito, come la chiave di una profonda e complicata passione. Owen si dava alle cose con totalità.
[...]
Quella notte Owen suonò il flauto per dieci o quindici minuti, un suono sottile e meditativo che galleggiava sulle strade buie. Sedevamo fuori, su un terrazzino che dava sul lato sbagliato. Il mare era dietro di noi nascosto dalla casa. Tap apparve sulla finestra per informarci che presto sarebbe andato a letto. Sua madre volle sapere se questa fosse una richiesta di silenzio.
- No, mi piace il flauto
- Ne sono grato e sollevato, - disse Owen. - Dormi bene. Fai bei sogni.
- Bobuona nobotte.
- Sai dirlo in greco?
- In greco-greco o in greco-Ob?
- Questo sì che sarebbe interessante, - disse Kathryn. - Greco-Ob. Non ci avevo mai pensato.
Owen disse a Tap: - Se mai tua madre ti porterà a Creta, conosco un posto che forse ti interesserebbe vedere. E' nella parte centro-sud dell'isola, non lontano da Festo. C'è un gruppo di rovine sparse nei campi vicino a una basilica del settimo secolo. Gli italiani hanno scavato lì, hanno trovato figure minoiche, che già conosci. E ci sono rovine greche romane sparse dappertutto. Ma la cosa che forse ti piacerebbe di più è il codice della legge. E' un dialetto dorico ed è iscritto su un muro di pietra. Non so se abbiano mai contato le parole, ma hanno contato le lettere. Diciassettemila. La legge tratta di reati, diritti di proprietà terriera e altre cose. Ma quello che è interessante è che è tutto scritto in uno stile chiamato boustrophédon. Una riga è scritta da sinistra a destra, e la successiva da destra a sinistra così come gira il bue quando ara. Boustrophédon significa appunto questo. E' più facile da leggere del nostro sistema. Si scorre una riga e poi l'occhio cade sulla prossima, invece di dover sfrecciare lungo di essa. Certo, ci vorrebbe un po' di tempo per abituarsi. Quinto secolo avanti Cristo.
Parlava lentamente, con una voce piena, leggermente ghiaiosa, una cantilena regionale di vocali aperte e altri abbellimenti. La sua voce conteneva dramma, storia armoniosa. Era facile capire come un ragazzino di nove anni potesse sentirsi cullato da questi ritmi narrativi.
Il villaggio era silenzioso. Quando Tap spense la luce sul suo comodino, l'unica luce visibile restò il pezzetto di candela che bruciava tra i nostri bicchieri di vino e le croste di pane. Sentii il calore vitreo di tutta la giornata sotto la pelle.
- Che progetti hai? - chiesi a Owen.
Entrambi risero.
- Ritiro la domanda.
- Sto manovrando sulle lunghe distanze, - disse lui. - Forse riusciremo a finire il lavoro stagionale. Dopodiché può accadere qualunque cosa.
- Nessun progetto di insegnamento?
- Non credo di voler ritornare. Insegnare cosa? A chi? - fece una pausa. - Per me ormai l'Europa è come un libro rilegato in brossura. E l'America è l'edizione tascabile-. Rise, congiungendo le mani.
-  Mi sono dato alle pietre, James. Tutto ciò che desidero fare è leggere le pietre.
- Immagino che tu intenda le pietre greche.
- Sono sgattaiolato fino in Medio Oriente. E sto imparando il sanscrito da solo. C'è un posto in India che voglio vedere, una specie di padiglione scanscrito con un mucchio di iscrizioni.
- Che tipo di libro è l'India?
- Sospetto che non sia affatto un libro. E' quello che mi spaventa.



LETTURA 4
Il pastore che non fumava prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise a esaminarle l’una dopo l’altra con grande attenzione, separando le buone dalle guaste. Io fumavo la pipa. Gli proposi di aiutarlo.
Mi rispose che era affar suo. In effetti: vista la cura che metteva in quel lavoro, non insistetti. Fu tutta la nostra conversazione. Quando ebbe messo dalla parte delle buone un mucchio abbastanza grosso di ghiande, le divise in mucchietti da dieci. Così facendo, eliminò ancora i frutti piccoli o quelli leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando  infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire. La  società di quell’uomo dava pace. Gli domandai l’indomani il permesso di riposarmi per l’intera giornata da lui. Lo trovò del tutto naturale o, più esattamente, mi diede l’impressione che nulla potesse disturbarlo. Quel riposo non mi era affatto necessario, ma ero intrigato e ne volevo sapere di più. Il pastore fece uscire il suo gregge e lo portò al pascolo. Prima di uscire, bagnò in un secchio d’acqua il sacco in cui aveva messo le ghiande meticolosamente scelte e contate. Notai che in guisa di bastone portava un’asta di ferro della grossezza di un pollice e lunga un metro e mezzo. Feci mostra di voler fare una passeggiata di riposo e seguii una strada parallela alla sua. Il pascolo delle bestie  era in un avvallamento. Lasciò il piccolo gregge in guardia al cane e salì verso di me. Temetti che venisse per rimproverarmi della mia indiscrezione ma niente affatto, quella era la strada che doveva fare e m’invitò ad accompagnarlo se non avevo di meglio. Andava a duecento metri da lì, più a monte. Arrivato dove desiderava cominciò a piantare la sua asta di ferro in terra. Faceva così un buco nel quale depositava una ghianda, dopo di che turava di nuovo il buco. Piantava querce. Gli domandai se quella terra gli apparteneva. Mi rispose  di no. Sapeva di chi era? Non lo sapeva. Supponeva che fosse una terra comunale, o forse  proprietà di gente che non se ne curava? Non gli interessava conoscerne i proprietari. Piantò così le cento ghiande con estrema cura.



LETTURA 5
- Una cosa che volevo raccontarti, Owen. Circa due settimane fa, un sabato, ricordi che finimmo più presto? Tap e io tornammo a casa, lui fece un pisolino, io mi trascinai una sedia sul tetto e sedetti ad asciugarmi i capelli e rivedere i miei appunti. Nulla si muoveva laggiù. Dopo circa dieci minuti di lettura scorsi un uomo uscire dall'ombra del villaggio più basso e dirigersi verso una motocicletta sul molo. Ci si chinò sopra, ispezionò alcune parti. Un secondo uomo apparve nel nulla. Non salutò l'altro uomo. Per quanto ne so, non si accorse nemmeno della sua presenza. C'era un'altra moto all'estremità opposta del molo. Il secondo uomo si mise a cavalcioni della sua moto. Il primo assunse la stessa posa. Entrambi misero in moto nello stesso istante, Owen, precisamente, e si allontanarono rombando in direzioni opposte, su nelle colline, due scie di polvere. Sono certa che nessuno dei due aveva neanche sentito l'altro.
- Delizioso, - disse lui.
- E poi di nuovo silenzio. Due linee di polvere che svanivano nell'aria.
- E tu hai visto la cosa prendere forma.
- Sì, c'era una tensione. Ho visto gli elementi che si incastravano. Il modo in cui il secondo uomo camminava verso l'altra parte del molo. Le ombre nette.
- E poi si è disintegrato, letteralmente in polvere.
Owen divenne assorto, come spesso gli accadeva. Stese le gambe spingendo la sedia contro il muro. Aveva un viso affusolato e due grandi occhi spiritati, i capelli radi, le sopracciglia chiare, una chiazza di calvizie. A volte sembrava che le sue spalle stessero strette in quella lunga e sottile cornice.
- Eppure siamo in Europa, no? - disse Owen, e io la presi come un'osservazione legata a qualcosa detto in precedenza. A volte, dopo lunghe pause pensierose, Owen se ne usciva con frasi che non sempre sembravano logiche.
- Non importa a quale distanza sulle montagne e sulle isole, quanto profondi siamo noi, quanta voglia abbiamo di scomparire, c'è sempre questo elemento di una cultura comune, la sensazione di conoscere questa gente, di discendere da loro. E c'è dell'altro al di là di questo che pure è familiare, un certo mistero. A volte sento di essere quasi sul punto di scoprirlo. E' fuori portata, è qualcosa che mi tocca nel profondo. Ma non riesco ad afferrarlo, a tenerlo. Capite cosa voglio dire?
Nessuno lo capiva.
- Ma per tornare al tema dell'equilibrio, Kathryn, lo vediamo qui ogni giorno, sebbene non proprio come lo hai descritto tu. Questo è uno di quei luoghi greci che oppone la forza elementare alla sensualità. Il sole, i colori, la luce del mare, le grosse api nere, quale delizia fisica, quale fertile, lenta e operosa delizia. E poi il branco di capre sulla collina arida, il vento terribile. La gente deve escogitare sistemi per raccogliere l'acqua piovana, rinforzare le case contro i terremoti e coltivare su un suolo ripido e roccioso. Sussitenza. Un profondo silenzio. Nulla qui per rinfrescare e lambire il paesaggio, né fiumi, né laghi, né foreste. Ma ci sono il mare e la luce  e gli uccelli marini, c'è il calore che fa imputridire le ambizioni e stordisce la volontà e la mente.
Scoppiò a ridere, come se c'invitasse a prenderci gioco di lui. Quand'ebbe finito il suo vino, sedette diritto, le gambe sotto la sedia.
- Precisione nel dettaglio. Ecco ciò che la luce apporta. Cerca nelle piccole cose la verità e la gioia. Questo è lo specifico greco.
Kathryn posò il suo bicchiere.
- Racconta a James della gente sulle colline, - disse, e se ne andò dentro sbadigliando.
[...]
- Cominciò tutto semplicemente, - disse Owen. - Volevo visitare il monastero. C'è un sentiero che serpeggia in quella direzione, largo appena per una moto. Taglia un vigneto, poi si arrampica tra le colline polverose. Tra un avvallamento e un'altura, puoi cogliere visioni intermittenti di quelle masse rocciose nell'interno dell'isola. Il monastero è abitato. E' un monastero in piena attività, a sentire i locali, dove i visitatori sono ben accolti. Il problema col sentiero è che sparisce in un groviglio di cespugli e rocce franate a circa tre chilometri dalla meta. Non c'è altra scelta che farsela a piedi. Lasciai lì la moto e mia avviai. Dalla fine del sentiero non si riesce a vedere il monastero e neanche l'enorme colonna rocciosa su cui è piantato, così mi ritrovai a dover ricostruire il percorso da quegli sguardi affrettati che gli avevo lanciato un quarto d'ora prima, sulla moto.
[...]
Lungo la via ci sono delle caverne. Alcune mi sembrarono caverne funerarie, simili a quelle di Matala sul mare Libico. In tutta la Grecia ci sono caverne, naturalmente. Qualcuno dovrebbe scrivere una storia esauriente della civiltà cavernicola in questa parte del mondo. E' tutta una cultura parallela, immagino, fino agli hippies e ai nudisti di Creta dei giorni nostri. Perciò non fui troppo sorpreso quindo vidi due figure, uomini, davanti all'ingresso di una delle caverne, a circa quindici metri più su di me. In quella zona le colline hanno un tinta verdastra, e quasi tutte sono arrotondate. Non ero ancora arrivato al pinnacolo dove si trova il monastero. Avanzai e chiesi in greco ai due uomini se quella era la via per il monastero. La cosa curiosa è che sapevo che non erano greci. Istintivamente pensai che potesse tornarmi utile fare la parte dello sciocco. E' strano come la mente si faccia questi calcoli. C'era qualcosa nel loro aspetto, uno sguardo sbattuto, intenso e sfuggente. Non che mi credessi in pericolo, ma sentivo di dover usare una tattica. Sono indifeso, un viaggiatore sperduto. Eccomi là, con scarpe da passeggio e cappello per il sole, uno zainetto di tela sulla schiena. Thermos, panini, cioccolata. C'erano gli scalini rozzamente intagliati nella roccia, niente affatto recenti. Gli uomini indossavano abiti vecchi, larghi e trasandati. Colori sbiaditi, pantaloni alla turca, o indiani, quelli che i giovani viaggiatori indossano, a volte. Puoi trovarli ad Atene, negli alberghetti economici sulla Plaka, in posti come il mercato coperto a Istambul e dovunque lungo la via dell'India, gente in abiti da Ashram, in abiti coi lacci. Uno dei due aveva la barba e fu questo che mi apostrofò, in un greco più esitante del mio: "Quante lingue parli?". La cosa più assurda da chiedere. Come in un racconto medievale, la domanda posta ai viaggiatori alle porte della città. Il mio ingresso dipendeva forse dalla mia risposta? Il fatto che ci fossimo rivolti la parola in una lingua straniera ad entrambi rafforzava il senso di procedura formale, di cerimoniale. Di rimando gridai: "Cinque", di nuovo in greco. Ero curioso ma ancora diffidente e quando mi fece cenno di salire me la presi con calma, chiedendomi che tipo di gente, e per quanti secoli, fosse vissuta in quella zona.
[...]
C'erano altre due persone all'ingresso della caverna, una donna, robusta, dai lineamenti duri e i capelli corti. L'uomo sedeva all'imboccatura della caverna e scriveva in un taccuino. C'era un fuoco circondato da pietre. Nella caverna scorsi sacchi a pelo, zaini, stuoie e altre cose che non vidi chiaramente. Questi tipi erano luridi, ovviamente, i capelli incrostati di sporcizia, quel tipo particolare di sporco di chi non ci fa più caso. Lo sporco era il loro elemento, oramai, era la loro aria, il loro calore notturno. Ci sedemmo fuori dalla caverna su sporgenze del terreno, scalini intagliati, sacchi a pelo arrotolati. Uno degli uomini puntò il dito verso il monastero, che la lì si vedeva chiaramente. Decisi di interpretarlo come un segno amichevole  e rassicurante e cercai di non fare caso al modo con cui mi stavano studiando minuziosamente. Per tutto il tempo parlammo in greco, il loro era un misto di forme arcaiche e di demotikì, quello che viene parlato oggigiorno.

Gli disse che si occupava di epigrafia, il suo primo e attuale amore, lo studio delle iscrizioni. Che partiva spesso per spedizioni private, lasciando gli scavi minoici ai suoi assistenti. Che era tornato da poco da Qasr Hallabat, un castello in rovina nel deserto della Giordania, dove aveva visto i frammenti di iscrizioni greche note come l'editto di Anastasio. Che prima di allora era stato a Tell Mardikh per studiare le tavole di Ebla, sul monte Nebo per vedere i pavimenti a mosaico, a Jerash, Palmira, Efeso. Gli disse che era stato a Ras Shamrah, in Siria, per ispezionare un'unica tavoletta di argilla, circa della grandezza del dito medio di un uomo, che conteneva un intero alfabeto di trenta lettere del popolo di Canaan che aveva vissuto lì più di tremila anni fa.
Ed essi sembrarono eccitati da questi racconti, sebbene nessuno ne parlasse sino a che Owen non si alzò per riprendere il cammino. Infatti egli pensò che tentassero di nascondere l'eccitazione. Mentre lui parlava ancora di Ras Shamrah sedevano in silenzio, attenti a non scambiarsi neppure un'occhiata. Ma lui avvertì una interazione, una strana forza nell'aria, come se ognuno di loro fosse seduto in un campo magnetico e i diversi campi avessero iniziato a sconfinare. Alla fine venne fuori che erano interessati all'alfabeto. Glielo spiegarono quasi timidamente nel loro greco esitante.
Non Ras Shamrah. Non la storia, gli dèi, le mura crollate, le aste delle bilance e le pompe delle scavatrici. Ma l'alfabeto in sé. Erano interessati alle lettere, ai simboli scritti, fissati in sequenza.



LETTURA 6
Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila, ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quello che c’è di imprevedibile nei disegni della provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c’era nulla. Fu a quel momento che mi interessai dell’età di quell’uomo. Aveva evidentemente più di cinquant’anni: Cinquantacinque, mi disse lui. Si chiamava Elzeard Bouffier. Aveva posseduto una fattoria in pianura. Aveva vissuto la sua vita. Aveva pensato che quel paese sarebbe morto per mancanza di alberi. Aggiunse che, non avendo altre  occupazioni più importanti, s’era risolto a rimediare quello stato di cose.
L’anno seguente, ci fu la guerra del ’14, che  mi impegno per cinque anni. Un soldato di fanteria non poteva pensare agli alberi. A dir la verità, la cosa non mi era nemmeno rimasta impressa; l’avevo considerata come un passatempo, una collezione di francobolli, e dimenticata.
Avevo visto morire troppa gente in cinque anni per non immaginarmi facilmente anche la morte di  Elzeard Bouffier, tanto più che,quando si ha vent’anni, si considerano le persone di cinquanta come dei vecchi a cui resta soltanto da morire . Non era morto. Era anzi in ottima forma. Aveva cambiato mestiere. Gli erano rimaste solo quattro pecore ma, in cambio, possedeva un centinaio di alveari. Si era sbarazzato delle bestie che mettevano in pericolo i suoi alberi. Perché, mi disse (e lo constatai), non s’era per nulla curato della guerra e aveva continuato imperturbabilmente a piantare. Le querce del 1910 avevano adesso dieci anni ed erano più alte di me e di lui. Lo spettacolo era impressionante. Ero letteralmente ammutolito e, poiché lui non parlava, passammo l’intera giornata a passeggiare in silenzio per la sua foresta. Misurava, in tre tronconi undici kilometri nella sua lunghezza massima. Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall’anima di quell’uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di dio in altri campi oltre alla distruzione. Aveva seguito la sua idea, e i faggi  che mi arrivavano alle spalle, spersi a perdita d’occhio, ne erano la prova. Le querce erano fitte e avevano passato l’età in cui potevano essere alla mercè dei roditori. Bouffier mi mostrò dei mirabili boschetti di betulle che datavano a cinque anni prima, cioè al 1915, l’epoca in cui combattevo a Verdun.
Il processo aveva l’aria di funzionare a catena. Lui non se ne curava; perseguiva ostinatamente il proprio compito, molto semplice.



LETTURA 7
(Hawa Madir) era una cittadella del quindicesimo secolo che il deserto stava lentamente assimilando, ed era già di un colore così simile a quello del deserto che Owen non la vide finché non arrivarono alle sue porte. Si stava sgretolando, consumando a poco a poco, sprofondava nella terra che l'accoglieva e si combinava con essa.
[...]
La sabbia soffiava lungo le rovine annerite. Un rozzo sentiero conduceva, tra i rovi e gli sterpi, al gruppo di edifici. Collinette di arenaria sorgevano in mucchi regolari tutt'attorno. Owen passò oltre una donna e un bambino con una vacca macilenta. Il bambino seguiva la vacca passo passo e ne raccoglieva lo sterco appena quest cadeva al suolo, ripiegandolo, appiattendolo. La donna urlava qualcosa, fendendo l'aria con un bastone. Questo suono echeggiava brevemente nel vento. La storia. Colui che vi resta al di fuori.
Quando arrivò ai silos (Owen) ci vedeva appena, la sabbia gli sferzava il viso e doveva camminare con le braccia piegate innanzi a sé aprendo gli occhi solo per osservare il percorso di tanto in tanto. All'improvviso lo colpì la figura di un uomo che stava immobile alla fine del sentiero, la pelle bruna, i capelli aggrovigliati e selvaggi, il viso scoperto nonostante la sabbia. Aveva ombre profonde sotto gli occhi e un'aria minacciosa, ma era anche stranamente calmo, in attesa, avvolto in indumenti vari dalla testa ai piedi, le mani coperte, il capo e i piedi nudi, e stava dicendo qualcosa a Owen. Era una domanda, forse? Si guardarono. Quando l'altro ripeté le parole, Owen si rese conto che la lingua era sanscrito e capì all'improvviso il significato, anche senza cercare di tradurre.
L'uomo aveva detto: - Quante lingue parli?

[...]
Il nome dell'uomo era Avtar Singh. Owen sospettava che si trattasse di uno pseudonimo e non era mai riuscito a convincersi che Singh fosse davvero indiano. Quest'uomo non aveva soltanto una mimica eccezionale, ma era capace di sembrare diverso ogni volta che Owen lo incontrava. Un asceta, un predicatore ambulante, un pazzo cittadino. Anche la sua fisionomia cambiava, il suo aspetto il suo carattere. Intelligente, vanesio, ossequioso, crudele. Un giorno appariva sottile e severo, un mistico vestito di stracci; un altro era gonfio, paffuto, gli occhi semchiusi e drogati.
La cellula greca si era sciolta e due dei membri erano giunti qui da poco. Emmerich era uno dei due, un uomo dal capo austero e la barba corta. L'altro era la donna, Bern, grossa, con le labbra spesse, che ormai non apriva bocca da settimane, quasi tutto il tempo se ne stava chiusa in uno dei silos col tetto di paglia.
C'erano anche altri due uomini, ma Owen ebbe pchi rapporti con loro. Sapeva soltanto che erano stati con Singh in Iran, che uno di loro soffriva di febbri e tremori periodici e che entrambi dovevano essere europei. Inoltre non parlavano il sanscrito come gli altri membri facevano o cercavano di fare e questo, assieme all'atmosfera che predominava nel gruppo, suggerì a Owen che il culto era quasi morto.
Un giorno conversò con Emmerich, entrambi acquattati nella polvere. Parlarono del sanscrito, un po' nella lingua stessa e un po' in alcune altre. Emmerich aveva l'aria di un galeotto intelligente, condannato all'ergastolo per omicidio, autodidatta e pieno di volontà, un esperto nell'arte dellla vita in reclusione, sprezzante con tutti quelli che volevano sapere come fosse, sprezzante persino quando accettava di istruirli. Quest'uomo di era assestato nella sua condanna a vita. Il suo crimine, la sua ampiezza, forniva inesauribilmente materia di speculazione filosofica e autoanalisi. Ogni cosa che leggeva gli serviva come filosofia personale, come spiegazione ed espansione di quell'unico, fulgido momento, rispiegato a se stesso e usato. L'omicidio è diventato parte del catalogo della sua autoanalisi. La vittima e l'atto sono ormai una teoria per avere un senso di se stesso. Sono ciò che usa per vivere.
- La parola sanscita per "nodo", disse Emmerich, alla fine venne a significare "libro". Grantha. Questo per via dei manoscritti di ramo di betulla e foglia di palma che venivano legati a un cordone che passava dentro due buchi e si fermava con dei nodi.
Un capo austero, si ripeteva Owen. Suo padre rideva sempre per via del cappello enorme che indossava con la sua tuta a pettorina. Oltre il negozietto all'incrocio. La temnda parasole e l'insegna della Coca-Cola. I pali di legno affondati nei blocchi di cenere. Sua madre diceva sempre: - Non capisco un'acca di quel che stai dicendo.
La testa di Emmerich era piccola, gli occhi arcigni e distanziati, i capelli e la barba tagliati corti. I due uomini erano accovacciati ad angolo l'uno dall'altro, come se stesseo parlando al deserto.
- Che cos'è un libro? - disse Emmerich. - E' una scatola che apriamo. Tu questo lo sai, immagino.
- Cosa c'è dentro la scatola?
- La parola "box" deriva dal greco puxos. Albero di bosso. Questo suggerisce il legno, ovviamente, ed è interessante che la parola "book" abbia origine dal medio olandese boek, o betulla, e dal germanico boko, un'asta di betulla su cui venivano incise le rune. E allora, riassumendo, abbiamo: libro, scatola, simboli alfabetici incisi nel legno. Il manico di legno dell'ascia su cui veniva inciso il nome del proprietario in lettere runiche.
- E' questa la storia? - Chiese Owen.
- No, non è storia, è esattamente il suo opposto. Un alfabeto completamente inerte. Quando leggiamo inseguiamo delle lettere statiche. Questo è il paradosso logico.



LETTURA 8
A partire dal 1929, non ho mai lasciato passare più di un anno senza andare a trovare Elzeard Bouffier. Non l’ho mai visto cedere né dubitare. Eppure, dio solo sa di averlo messo alla prova! Non  ho fatto il conto delle sue delusioni. E’ facile immaginarsi tuttavia che, per una simile riuscita sia stato necessario vincere le avversità; che,  per assicurare la vittoria di tanta passione, sia stato necessario lottare contro lo sconforto. Bouffier aveva piantato, un anno, più di diecimila aceri. Morirono tutti. L’anno dopo, abbandonò gli aceri per riprendere i faggi che riuscirono ancora meglio delle querce.
Per farsi un’idea più precisa di quell’eccezionale carattere, non bisogna dimenticare che operava in una solitudine totale; al punto che, verso la fine della vita, aveva perso del tutto l’ abitudine a parlare. O forse non ne vedeva la necessità.



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