Testo matrice
da La solitudine del Maratoneta
Appena finii al riformatorio
mi misero a correre la maratona. Immagino pensassero che avevo proprio il fisico adatto perché
ero lungo e magro per la mia età e in ogni caso, non mi dispiaceva troppo, a
dirvi la verità, perché nella nostra famiglia si era sempre corso molto
soprattutto per sfuggire alla polizia.
Quando in un crudo mattino di
gelo io mi alzo alle cinque e poso i piedi sul pavimento di pietra, tremando
verga a verga, e tutti i miei compagni hanno ancora un’altra ora di sonno prima
che suoni la campana, e sgattaiolo da basso attraverso tutti quei corridoi fino
al portone con il mio permesso in pugno, mi sembra di essere il primo e
l’ultimo uomo sulla terra, l’uno e l’altro insieme, se credete a quello che sto
cercando di dire. Mi sembra di essere il primo perché vengo scaraventato sui
campi gelati in maglietta e calzoncini anche il primo povero bastardo caduto
sulla terra in pieno inverno sapeva confezionarsi un vestito di foglie o
scuoiare uno pterodattilo per farsene un cappotto. Io invece sono là,
paralizzato dal freddo, senza niente per scaldarmi tranne un paio d’ore di
maratona prima di colazione, neppure una fetta di pane e antiparassitario.
Eccomi qua, dunque, ritto
sulla soglia in maglietta e calzoncini, senza neanche una crosta di pane secco
nelle budella che guardo i fiori coperti di brina ai miei piedi. Non mi metto
certo a frignare perché mi sembra di essere il primo uomo sulla terra. Mi sento
cinquanta volte meglio di quando sono rinchiuso lassù in quel dormitorio con
altri trecento ragazzi come me. No sono le volte in cui me ne sto là con l’impressione di essere l’ultimo
uomo sulla terra che non mi sento troppo bene.
Mi pare di esser l’ultimo
uomo sulla terra perché penso che tutti quei trecento dormienti alle mie spalle
sono morti dormono tanto bene da farmi pensare che ogni testa rapata abbia
esalato l’ultimo respiro durante la notte e io sia l’unico superstite, e quando
guardo fuori verso i cespugli e gli stagni gelati ho la sensazione che diventi
sempre più freddo finchè ogni cosa che vedo, comprese le mie braccia arrossate,
si coprirà di chilometri di ghiaccio, in tutto il mondo, fino al cielo e sopra
ogni pezzo di terra e di mare. Allora cerco di scrollarmi di dosso questa
sensazione e di comportarmi come se fossi il primo uomo sulla terra. La
prospettiva mi fa sentire meglio, e così appena mi sono caricato quanto basta
per mettermi in testa questa nuova impressione, spicco un balzo fuori dalla
porta, e via al trotto. E questo spasso della maratona è il migliore di tutti,
perchè mi permette di pensare, tanto bene che imparo le cose anche meglio di
quando sono a letto durante la notte. E allora appena mi dico che sono il primo
uomo che sia mai caduto sulla terra, e appena spicco quel primo balzo fulmineo
sull’erba gelata di un’alba in cui perfino gli uccelli non hanno il coraggio di
cantare, comincio a riflettere e questo mi piace. Faccio i miei giri come in
sogno, svoltando nelle curve del viottolo o del sentiero senza nemmeno
accorgermene, saltando ruscelli senza sapere che sono là, e gridando un
buongiorno al mattiniero mungitore delle vacche senza vederlo. E’ una pacchia
fare il maratoneta fuori nel mondo per conto tuo senza un’anima che ti faccia
saltare la mosca al naso o che ti dica cosa devi fare o che c’è un negozio d
svaligiare in fondo alla prossima strada. Tutto è morto, però va bene così,
perché è morto prima di essere vivo, no morto dopo essere stato
vivo. Non mi sento né mani ne piedi né un solo pezzo di carne viva,
quasi fossi uno spettro che non saprebbe di avere la terra sotto i piedi se non la vedesse ogni tanto in mezzo
alla nebbia. Clop-clop-clop, Anf-anf-anf-anf.Paf paf-paf (1° innesto) fanno i
miei piedi sul terreno duro. Zan-zan-zan
mentre braccia e spalle sfiorano i rami nudi di un cespuglio
clop-clop-clop, paf-paf-paf,
(2°innesto)oltre il ruscello e dentro il bosco dov’è quasi buio e i
rametti coperti di brina mi sferzano le gambe. E io perderò la gara,perché non
sono un cavallo da corsa e glielo dimostrerò quando starò per uscire. Accidenti
se lo farò. Forse si muore appena si mettono i piedi sul collo di qualcuno, perdio per formulare
questa frase mi ci è voluto qualche centinaio di chilometri di corsa. Mentre
corro e vedo il vapore del mio fiato diffondersi nell’aria come se avessi dieci
sigari piantati in diverse parti del corpo, penso ancora al fervorino che fece
il direttore la prima volta che arrivai. Meno male che riesco a pensare queste
cose alla stessa velocità con cui riesco
a scrivere con il mozzicone di matita che stringo nella zampa. Quando dopo
un’alba paralizzata dal gelo vedo un pezzetto di sole catarroso appeso ai rami
nudi del faggio e del sicomoro, e quando la scorciatoia che taglia l’argine
ripido e coperto di cespugli per portarmi nel viottolo incassato mi avverte che
sono a metà del percorso, quando ancora non c’è un anima in vista e non un
rumore tranne il nitrito di un puledro pezzato nella stalla di un casolare che
non riesco nemmeno a vedere, comincio a fare le riflessioni più profonde e
azzardate. Al direttore verrebbe un accidente se mi vedesse scivolare a quel
modo per l’argine perché potrei rompermi l’osso del collo o una caviglia, ma
non posso non farlo perché è l’unico rischio che corro e l’unica esaltazione
che provo mai, volando ventre a terra come uno di quegli pterodattili del mondo
perduto che ho sentito una volta alla radio, starnazzando come un galletto
castrato, graffiandomi la pelle sui rovi e quasi lasciandomi andare ma non del
tutto. E’ il momento più bello perché nella mia testa,mentre vado giù, non c’è
nemmeno un pensiero o una parola o un’immagine o qualunque altra cosa. Sono vuoto, vuoto com’ero prima
di nascere, e non mi abbandono del tutto, credo, perché ciò che si nasconde in
fondo al mio essere, qualunque cosa sia, non vuole che io muoia o mi ferisca
malamente. Clop–clop-clop, anf- anf –anf-anf. Paf-paf-paf (3° innesto)A
ripensarci, immagino che quegli alberi enormi si mettessero i rami davanti alla
bocca strizzandosi l’occhio mentre filavo giù per l’argine come un razzo senza
vedere un accidente.
Il cielo azzurro era pieno di sole e non avrebbe potuto
essere una giornata migliore, e tutto il grande spettacolo sembrava tolto di
peso dall’Ivanohe che ci avevano
fatto vedere la sera prima . Le mie ginocchia sentirono il fresco contatto del
terreno, e con la coda dell’occhio vidi Roach alzare la mano. Il ragazzo di Gunthorpe ebbe un fremito prima che
dessero il segnale; qualcuno applaudì troppo presto; Medway si sporse in
avanti; poi la pistola sparò, e via che andammo. Facemmo un giro del campo e
poi coprimmo gli ottocento metri di un viale di olmi per immetterci sul
viottolo ebbi l’impressione di essere in testa anche se non mi interessava
saperlo con certezza. Alla prima barriera, senza forzare ero ancora secondo
posto; e se qualcuno di voi vuol sapere come si corre, si ricordi di non avere
mai fretta, e di non lasciare mai che nessuno degli altri corridori capisca che
si ha fretta anche se è vero. Nella maratona li potete sempre agguantare senza
permettere che gli altri capiscano la fretta che avete; e quando avete usato
l’astuzia per raggiungere i due tre
che sono in testa allora potete fare, dopo un po’, un bello scatto per
piantare in asso gli altri, perché fino a quel momento non avete dovuto
forzare. Io correvo con passo regolare e sostenuto, e presto la mia falcata
divenne talmente regolare da farmi dimenticare che correvo, e sapevo solo che
le gambe si alzavano e si abbassavano e le braccia oscillavano avanti e
indietro, e i polmoni non
sembravano lavorare affatto , e il cuore smise di battere all’impazzata
come fa sempre quando inizio una corsa. Perché, vedete, io non gareggio mai; io
corro soltanto, e in qualche modo
so che se mi dimentico la gara e mi limito a tenere un buon passo finchè
non so più che sto correndo, vinco sempre. Perché quando i miei occhi si
accorgono che sono vicino alla fine del percorso perché riconosco una barriera
per il bestiame o l’angolo di un casolare- faccio uno scatto, e posso farlo
così veloce perché fino a quel momento ho l’impressione di non aver corso
affatto e di non aver sprecato la minima energia. E ci sono riuscito perché ho
continuato a pensare; e mi domando se sono l’unico corridore al mondo con
questo sistema di dimenticare che sto correndo perché sono troppo occupato a
pensare; e mi domando se qualcuno degli altri ragazzi conosce il mio trucco,
anche se sono sicuro di no . Via come il vento clop –clop anf-anf-anf anf- paf
paf -paf (4°innesto)
sull’acciottolato del sentiero e
lungo la carreggiata del viottolo, più liscio della pista sull’erba schiacciata
del campo e più adatto alle riflessioni perchè non troppo liscio, e io quel
pomeriggio ero nel mio elemento perchè sapevo che nessuno poteva battermi nella
corsa e che sarei stato io a battere me stesso prima che la giornata fosse finita. Continuavo a trottare ai
margini di un campo fiancheggiato dal viottolo incassato, sentendo l’odore
dell’erba verde del caprifoglio, e mi pareva di venire di una lunga stirpe di
cani levrieri addestrati a correre su due zampe, solo che davanti a me non
vedevo un coniglio meccanico da inseguire e alle spalle non avevo un randello
da minatore che mi obbligasse a tenere l’andatura. Clop-clop , anf-anf-anf-anf,
paf-paf-paf (5°innesto)Superai il corridore di Gunthorpe che aveva la maglietta
già nera di sudore e vidi appena davanti a me l’angolo del boschetto cintato
dove l’unico concorrente che dovevo sorpassare per vincere la gara stava
correndo ventre a terra per concludere la prima metà del percorso. Poi lui
svoltò in una macchia di alberi e cespugli dove non riuscii più a vederlo, e
allora compresi che cos’era la solitudine del maratoneta in corsa attraverso la
campagna, rendendomi conto che per quanto mi riguardava questa sensazione era
l’unica onestà e realtà esistente al mondo e che io,
sapendolo , non sarei mai stato diverso, quali che fossero le mie sensazioni in
certi momenti, e qualsiasi cosa gli altri cercassero di dirmi. Il corridore
alle mie spalle doveva essere molto lontano perché c’era un gran silenzio e
c’era perfino meno rumore e movimento che alle cinque di un gelido mattino
d’inverno. Non era facile capire, e tutto ciò che sapevo era che bisognava correre, correre,
correre, senza sapere perché correvi, attraverso i campi che non capivi e
dentro boschi che ti mettevano
paura, scavalcando colline senza sapere che eri salito e disceso, e saltando
ruscelli che ti avrebbero gelato il cuore se ci fossi caduto dentro. E il traguardo d’arrivo non era la
fine, anche se la folla ti avrebbe accolto con applausi, perché dovevi continuare
a correre prima di riprendere fiato, e l’unica volta in cui ti fermavi sul
serio era quando inciampavi in un tronco d’albero e ti rompevi l’osso del collo
oppure cadevi in un pozzo abbandonato per giacere in eterno nelle buie
viscere. Allora pensai; non mi
lascio mettere nel sacco da questa presa in giro della gara, questo correre e
cercare di vincere, questo trottare per un pezzo di nastro azzurro, perché non
è questo il modo di tirare avanti anche se loro giurano e spergiurano che lo è.
E io correvo, uscivo dal
bosco, superando il battistrada senza sapere che stavo per farlo. Pif-paf,
pif-paf, clip-clop, cric-crac, cric-crac, (6°innesto) di nuovo attraverso il
vasto campo, correndo ritmicamente senza sforzo alla maniera del levriero,
sapendo che avevo vinto la gara anche se era ben lontana dall’essere finita.
Delle due una: la gara o la vincevo o la correvo.
…
Sono appena uscito da
viottolo ai piedi dell’argine, con le ginocchia e i gomiti sbucciati, le ossa
ammaccate e con la pelle graffiata, e alla fine manca solo un terzo del
percorso, e una voce incalza come una radio nella mia mente dicendo che quando
ne hai avuto abbastanza di sentirti bene come il primo uomo sulla terra in un
mattino di gelo, e hai saputo cosa vuol dire sentirsi male come l’ultimo uomo
sulla terra in un pomeriggio d’estate, allora finisci irrimediabilmente per
diventare l’unico uomo sulla terra e te ne infischi del bene e del male, ma
continui soltanto a trottare con le scarpette che schiaffeggiano il buon
terreno asciutto che almeno non ti farebbe mai un brutto scherzo.Ora le parole
vengono come da una radio a galena che si è guastata, e nell’involucro delle
mie budella c’è qualcosa che mi tormenta e io non so perché o che cosa darne la
colpa, un’oppressione vicino al cuore come se dentro mi ballasse un sacchetto
di viti arrugginite e io le scuotessi ogni volta che metto avanti un piede.
Ogni tanto interrompo il ritmo per tastarmi la scapola sinistra incrociando il
braccio destro sul petto come per toglierne il coltello che chissà come vi si è conficcato. Quello di
Gunthorpe mi aveva quasi
raggiunto. Nel campo vicino il
grano era diventato alto e presto
l’avrebbero tagliato con le falci mietitrici, ma io preferisco non distrarmi
troppo durante la corsa per non perdere il passo , così all’altezza del fienile
decisi di lasciarmi tutto alle spalle e feci un tale scatto malgrado i chiodi
che avevo nella pancia , che in brevissimo tempo diedi un enorme distacco sia
a quello di Gunthorpe sia agli
uccelli.
Comunque sputo catarro e
continuo a correre e maledico chi ha fatto i riformatori e le loro gare di
atletica- cloppete-clop, paf-paf, cric –crac, cric-crac.7°in)
Solo se affronto ogni cosa
del genere col mio passato posso continuare a essere quello di una volta e
rispondere ai colpi, e ora che ho continuato a pensare fino qui so che vincerò
alla fine..
Mi hanno visto e ora
applaudono e gli altoparlanti piazzati attorno al campo come orecchie
d’elefante stanno diffondendo la grande notizia che io sono in testa e del
grande vantaggio e non posso fare altro che restarci. Ma io sto ancora pensando
alla morte da fuorilegge di cui è morto mio padre, dicendo ai dottori di
levarsi dai piedi quando loro volevano farlo crepare all’ospedale ( come uno
schifoso porcellino d’india gli aveva gridato, furibondo). E infilai il viale,
portando in petto un cuore bloccato tra le arterie come la diga sul fiume
Colorado, il sacchetto di chiodi sempre più stretto in una morsa d falegname,
ma con i piedi simili ad ali di uccello e le braccia come artigli pronto a
volare attraverso il campo, solo che non volevo dare quella soddisfazione a
nessuno, o vincere per sbaglio la gara. Sento l’odore della giornata calda e
asciutta ora che corro verso la fine, passando davanti alla montagnola d’erba
formata dai recipienti agganciati
al muso delle falciatrici spinte dai miei compagni; con le dita strappo un
pezzo di corteccia di un tronco d’albero e me la caccio in bocca, masticando
mentre corro legno e polvere e magari larve fino quasi a star male, ma
inghiottendone lo stesso a più non posso perché un uccellino mi ha detto che
volente o nolente vivrò assai di più ma che per i prossimi sei mesi non sentirò
l’odore di quell’erba né il sapore di quella corteccia polverosa né trotterò su
questo grazioso sentiero. Mi secca doverlo ammettere ma qualcosa mi ha fatto spuntare
le lacrime agli occhi, e piangere è una cosa che non mi è più successa da
quando ero un bambino di due o tre anni . Perché ora sto rallentando per farmi
raggiungere da Gunthorpe e lo faccio proprio nel punto in cui il viale curva e
si immette nel campo sportivo: dove possano vedere quello che faccio, specie il
direttore e la banda dei suoi amici in tribuna d’onore e vado così piano che
quasi segno il passo. No gli faccio vedere io che significa onestà, foss’anche la mia ultima impresa, per
quanto sono sicuro che non capirà mai.
<<Corri !>>, (8°
inn) urlavano con le loro voci educate. << Corri!>>. Ma io ero
sordo cieco e scimunito e rimasi là dov’ero, con il sapore della corteccia e
sempre piangendo come un bambino, piangendo di gioia perché finalmente li avevo
battuti.
Perché udii un urlo e vidi quelli di Gunthorpe buttare le
giacche in aria e sentii lo scalpiccio sul viale alle mie spalle
avvicinarsi sempre di più e d’un
tratto una puzza di sudore e un paio di polmoni all’ultimo respiro mi
sorpassarono e continuarono la corsa barcollando verso quella corda, spompati e
ciondolanti da una parte all’altra, mentre il loro proprietario grugniva come
uno zulù che non sa più da che parte ha la testa, come il fantasma di me stesso
a novant’anni quando mi dirigo verso quella cassa ben imbottita. Avrei potuto
applaudirlo anche io: <<Dai , dai ,corri. Impiccati con quel pezzo di
nastro>>. Ma era già arrivato, e allora ripresi la gara , trotterellando
dietro di lui, finchè non raggiunsi la corda e svenni, assordato dall’urlo
feroce e tonante che mi entrò nelle orecchie mentre ero ancora a terra.
Siamo quasi alla fine: ma non
pensate che io non stia correndo ancora, perché è così, in un modo o nell’altro.
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