NOVE la Tappa allla libreria Marco Polo


 Testo matrice
da La solitudine del Maratoneta
Appena finii al riformatorio mi misero a correre la maratona. Immagino pensassero che  avevo proprio il fisico adatto perché ero lungo e magro per la mia età e in ogni caso, non mi dispiaceva troppo, a dirvi la verità, perché nella nostra famiglia si era sempre corso molto soprattutto per sfuggire alla polizia.
Quando in un crudo mattino di gelo io mi alzo alle cinque e poso i piedi sul pavimento di pietra, tremando verga a verga, e tutti i miei compagni hanno ancora un’altra ora di sonno prima che suoni la campana, e sgattaiolo da basso attraverso tutti quei corridoi fino al portone con il mio permesso in pugno, mi sembra di essere il primo e l’ultimo uomo sulla terra, l’uno e l’altro insieme, se credete a quello che sto cercando di dire. Mi sembra di essere il primo perché vengo scaraventato sui campi gelati in maglietta e calzoncini anche il primo povero bastardo caduto sulla terra in pieno inverno sapeva confezionarsi un vestito di foglie o scuoiare uno pterodattilo per farsene un cappotto. Io invece sono là, paralizzato dal freddo, senza niente per scaldarmi tranne un paio d’ore di maratona prima di colazione, neppure una fetta di pane e antiparassitario.
Eccomi qua, dunque, ritto sulla soglia in maglietta e calzoncini, senza neanche una crosta di pane secco nelle budella che guardo i fiori coperti di brina ai miei piedi. Non mi metto certo a frignare perché mi sembra di essere il primo uomo sulla terra. Mi sento cinquanta volte meglio di quando sono rinchiuso lassù in quel dormitorio con altri trecento ragazzi come me. No sono le volte in cui me ne sto là  con l’impressione di essere l’ultimo uomo sulla terra che non mi sento troppo bene.
Mi pare di esser l’ultimo uomo sulla terra perché penso che tutti quei trecento dormienti alle mie spalle sono morti dormono tanto bene da farmi pensare che ogni testa rapata abbia esalato l’ultimo respiro durante la notte e io sia l’unico superstite, e quando guardo fuori verso i cespugli e gli stagni gelati ho la sensazione che diventi sempre più freddo finchè ogni cosa che vedo, comprese le mie braccia arrossate, si coprirà di chilometri di ghiaccio, in tutto il mondo, fino al cielo e sopra ogni pezzo di terra e di mare. Allora cerco di scrollarmi di dosso questa sensazione e di comportarmi come se fossi il primo uomo sulla terra. La prospettiva mi fa sentire meglio, e così appena mi sono caricato quanto basta per mettermi in testa questa nuova impressione, spicco un balzo fuori dalla porta, e via al trotto. E questo spasso della maratona è il migliore di tutti, perchè mi permette di pensare, tanto bene che imparo le cose anche meglio di quando sono a letto durante la notte. E allora appena mi dico che sono il primo uomo che sia mai caduto sulla terra, e appena spicco quel primo balzo fulmineo sull’erba gelata di un’alba in cui perfino gli uccelli non hanno il coraggio di cantare, comincio a riflettere e questo mi piace. Faccio i miei giri come in sogno, svoltando nelle curve del viottolo o del sentiero senza nemmeno accorgermene, saltando ruscelli senza sapere che sono là, e gridando un buongiorno al mattiniero mungitore delle vacche senza vederlo. E’ una pacchia fare il maratoneta fuori nel mondo per conto tuo senza un’anima che ti faccia saltare la mosca al naso o che ti dica cosa devi fare o che c’è un negozio d svaligiare in fondo alla prossima strada. Tutto è morto, però va bene così, perché è morto prima di essere vivo, no morto  dopo essere stato  vivo. Non mi sento né mani ne piedi né un solo pezzo di carne viva, quasi fossi uno spettro che non saprebbe di avere  la terra sotto i piedi se non la vedesse ogni tanto in mezzo alla nebbia. Clop-clop-clop, Anf-anf-anf-anf.Paf paf-paf (1° innesto) fanno i miei piedi sul terreno duro. Zan-zan-zan  mentre braccia e spalle sfiorano i rami nudi di un cespuglio clop-clop-clop, paf-paf-paf,  (2°innesto)oltre il ruscello e dentro il bosco dov’è quasi buio e i rametti coperti di brina mi sferzano le gambe. E io perderò la gara,perché non sono un cavallo da corsa e glielo dimostrerò quando starò per uscire. Accidenti se lo farò. Forse si muore appena si mettono i piedi sul collo  di qualcuno, perdio per formulare questa frase mi ci è voluto qualche centinaio di chilometri di corsa. Mentre corro e vedo il vapore del mio fiato diffondersi nell’aria come se avessi dieci sigari piantati in diverse parti del corpo, penso ancora al fervorino che fece il direttore la prima volta che arrivai. Meno male che riesco a pensare queste cose alla stessa velocità con cui riesco  a scrivere con il mozzicone di matita che stringo nella zampa. Quando dopo un’alba paralizzata dal gelo vedo un pezzetto di sole catarroso appeso ai rami nudi del faggio e del sicomoro, e quando la scorciatoia che taglia l’argine ripido e coperto di cespugli per portarmi nel viottolo incassato mi avverte che sono a metà del percorso, quando ancora non c’è un anima in vista e non un rumore tranne il nitrito di un puledro pezzato nella stalla di un casolare che non riesco nemmeno a vedere, comincio a fare le riflessioni più profonde e azzardate. Al direttore verrebbe un accidente se mi vedesse scivolare a quel modo per l’argine perché potrei rompermi l’osso del collo o una caviglia, ma non posso non farlo perché è l’unico rischio che corro e l’unica esaltazione che provo mai, volando ventre a terra come uno di quegli pterodattili del mondo perduto che ho sentito una volta alla radio, starnazzando come un galletto castrato, graffiandomi la pelle sui rovi e quasi lasciandomi andare ma non del tutto. E’ il momento più bello perché nella mia testa,mentre vado giù, non c’è nemmeno un pensiero o una parola o un’immagine o qualunque altra  cosa. Sono vuoto, vuoto com’ero prima di nascere, e non mi abbandono del tutto, credo, perché ciò che si nasconde in fondo al mio essere, qualunque cosa sia, non vuole che io muoia o mi ferisca malamente. Clop–clop-clop, anf- anf –anf-anf. Paf-paf-paf (3° innesto)A ripensarci, immagino che quegli alberi enormi si mettessero i rami davanti alla bocca strizzandosi l’occhio mentre filavo giù per l’argine come un razzo senza vedere un accidente.
Il cielo azzurro  era pieno di sole e non avrebbe potuto essere una giornata migliore, e tutto il grande spettacolo sembrava tolto di peso dall’Ivanohe  che ci avevano fatto vedere la sera prima . Le mie ginocchia sentirono il fresco contatto del terreno, e con la coda dell’occhio vidi Roach alzare la mano. Il ragazzo  di Gunthorpe ebbe un fremito prima che dessero il segnale; qualcuno applaudì troppo presto; Medway si sporse in avanti; poi la pistola sparò, e via che andammo. Facemmo un giro del campo e poi coprimmo gli ottocento metri di un viale di olmi per immetterci sul viottolo ebbi l’impressione di essere in testa anche se non mi interessava saperlo con certezza. Alla prima barriera, senza forzare ero ancora secondo posto; e se qualcuno di voi vuol sapere come si corre, si ricordi di non avere mai fretta, e di non lasciare mai che nessuno degli altri corridori capisca che si ha fretta anche se è vero. Nella maratona li potete sempre agguantare senza permettere che gli altri capiscano la fretta che avete; e quando avete usato l’astuzia per raggiungere i due tre  che sono in testa allora potete fare, dopo un po’, un bello scatto per piantare in asso gli altri, perché fino a quel momento non avete dovuto forzare. Io correvo con passo regolare e sostenuto, e presto la mia falcata divenne talmente regolare da farmi dimenticare che correvo, e sapevo solo che le gambe si alzavano e si abbassavano e le braccia oscillavano avanti e indietro, e i polmoni non  sembravano lavorare affatto , e il cuore smise di battere all’impazzata come fa sempre quando inizio una corsa. Perché, vedete, io non gareggio mai; io corro soltanto, e in qualche modo  so che se mi dimentico la gara e mi limito a tenere un buon passo finchè non so più che sto correndo, vinco sempre. Perché quando i miei occhi si accorgono che sono vicino alla fine del percorso perché riconosco una barriera per il bestiame o l’angolo di un casolare- faccio uno scatto, e posso farlo così veloce perché fino a quel momento ho l’impressione di non aver corso affatto e di non aver sprecato la minima energia. E ci sono riuscito perché ho continuato a pensare; e mi domando se sono l’unico corridore al mondo con questo sistema di dimenticare che sto correndo perché sono troppo occupato a pensare; e mi domando se qualcuno degli altri ragazzi conosce il mio trucco, anche se sono sicuro di no . Via come il vento clop –clop anf-anf-anf anf- paf paf -paf  (4°innesto) sull’acciottolato  del sentiero e lungo la carreggiata del viottolo, più liscio della pista sull’erba schiacciata del campo e più adatto alle riflessioni perchè non troppo liscio, e io quel pomeriggio ero nel mio elemento perchè sapevo che nessuno poteva battermi nella corsa e che sarei stato io a battere me stesso prima che la giornata  fosse finita. Continuavo a trottare ai margini di un campo fiancheggiato dal viottolo incassato, sentendo l’odore dell’erba verde del caprifoglio, e mi pareva di venire di una lunga stirpe di cani levrieri addestrati a correre su due zampe, solo che davanti a me non vedevo un coniglio meccanico da inseguire e alle spalle non avevo un randello da minatore che mi obbligasse a tenere l’andatura. Clop-clop , anf-anf-anf-anf, paf-paf-paf (5°innesto)Superai il corridore di Gunthorpe che aveva la maglietta già nera di sudore e vidi appena davanti a me l’angolo del boschetto cintato dove l’unico concorrente che dovevo sorpassare per vincere la gara stava correndo ventre a terra per concludere la prima metà del percorso. Poi lui svoltò in una macchia di alberi e cespugli dove non riuscii più a vederlo, e allora compresi che cos’era la solitudine del maratoneta in corsa attraverso la campagna, rendendomi conto che per quanto mi riguardava questa sensazione era l’unica  onestà  e realtà esistente al mondo e che io, sapendolo , non sarei mai stato diverso, quali che fossero le mie sensazioni in certi momenti, e qualsiasi cosa gli altri cercassero di dirmi. Il corridore alle mie spalle doveva essere molto lontano perché c’era un gran silenzio e c’era perfino meno rumore e movimento che alle cinque di un gelido mattino d’inverno. Non era facile capire, e tutto ciò che sapevo  era che bisognava correre, correre, correre, senza sapere perché correvi, attraverso i campi che non capivi e dentro  boschi che ti mettevano paura, scavalcando colline senza sapere che eri salito e disceso, e saltando ruscelli che ti avrebbero gelato il cuore se ci fossi caduto dentro.  E il traguardo d’arrivo non era la fine, anche se la folla ti avrebbe accolto con applausi, perché dovevi continuare a correre prima di riprendere fiato, e l’unica volta in cui ti fermavi sul serio era quando inciampavi in un tronco d’albero e ti rompevi l’osso del collo oppure cadevi in un pozzo abbandonato per giacere in eterno nelle buie viscere.  Allora pensai; non mi lascio mettere nel sacco da questa presa in giro della gara, questo correre e cercare di vincere, questo trottare per un pezzo di nastro azzurro, perché non è questo il modo di tirare avanti anche se loro giurano e spergiurano che lo è.
E io correvo, uscivo dal bosco, superando il battistrada senza sapere che stavo per farlo. Pif-paf, pif-paf, clip-clop, cric-crac, cric-crac, (6°innesto) di nuovo attraverso il vasto campo, correndo ritmicamente senza sforzo alla maniera del levriero, sapendo che avevo vinto la gara anche se era ben lontana dall’essere finita. Delle due una: la gara o la vincevo o la correvo.
Sono appena uscito da viottolo ai piedi dell’argine, con le ginocchia e i gomiti sbucciati, le ossa ammaccate e con la pelle graffiata, e alla fine manca solo un terzo del percorso, e una voce incalza come una radio nella mia mente dicendo che quando ne hai avuto abbastanza di sentirti bene come il primo uomo sulla terra in un mattino di gelo, e hai saputo cosa vuol dire sentirsi male come l’ultimo uomo sulla terra in un pomeriggio d’estate, allora finisci irrimediabilmente per diventare l’unico uomo sulla terra e te ne infischi del bene e del male, ma continui soltanto a trottare con le scarpette che schiaffeggiano il buon terreno asciutto che almeno non ti farebbe mai un brutto scherzo.Ora le parole vengono come da una radio a galena che si è guastata, e nell’involucro delle mie budella c’è qualcosa che mi tormenta e io non so perché o che cosa darne la colpa, un’oppressione vicino al cuore come se dentro mi ballasse un sacchetto di viti arrugginite e io le scuotessi ogni volta che metto avanti un piede. Ogni tanto interrompo il ritmo per tastarmi la scapola sinistra incrociando il braccio destro sul petto come per toglierne il  coltello che chissà come vi si è conficcato. Quello di Gunthorpe mi aveva  quasi raggiunto. Nel campo  vicino il grano  era diventato alto e presto l’avrebbero tagliato con le falci mietitrici, ma io preferisco non distrarmi troppo durante la corsa per non perdere il passo , così all’altezza del fienile decisi di lasciarmi tutto alle spalle e feci un tale scatto malgrado i chiodi che avevo nella pancia , che in brevissimo tempo diedi un enorme distacco sia a  quello di Gunthorpe sia agli uccelli.
Comunque sputo catarro e continuo a correre e maledico chi ha fatto i riformatori e le loro gare di atletica- cloppete-clop, paf-paf, cric –crac, cric-crac.7°in)
Solo se affronto ogni cosa del genere col mio passato posso continuare a essere quello di una volta e rispondere ai colpi, e ora che ho continuato a pensare fino qui so che vincerò alla fine..
Mi hanno visto e ora applaudono e gli altoparlanti piazzati attorno al campo come orecchie d’elefante stanno diffondendo la grande notizia che io sono in testa e del grande vantaggio e non posso fare altro che restarci. Ma io sto ancora pensando alla morte da fuorilegge di cui è morto mio padre, dicendo ai dottori di levarsi dai piedi quando loro volevano farlo crepare all’ospedale ( come uno schifoso porcellino d’india gli aveva gridato, furibondo). E infilai il viale, portando in petto un cuore bloccato tra le arterie come la diga sul fiume Colorado, il sacchetto di chiodi sempre più stretto in una morsa d falegname, ma con i piedi simili ad ali di uccello e le braccia come artigli pronto a volare attraverso il campo, solo che non volevo dare quella soddisfazione a nessuno, o vincere per sbaglio la gara. Sento l’odore della giornata calda e asciutta ora che corro verso la fine, passando davanti alla montagnola d’erba formata dai recipienti  agganciati al muso delle falciatrici spinte dai miei compagni; con le dita strappo un pezzo di corteccia di un tronco d’albero e me la caccio in bocca, masticando mentre corro legno e polvere e magari larve fino quasi a star male, ma inghiottendone lo stesso a più non posso perché un uccellino mi ha detto che volente o nolente vivrò assai di più ma che per i prossimi sei mesi non sentirò l’odore di quell’erba né il sapore di quella corteccia polverosa né trotterò su questo grazioso sentiero. Mi secca doverlo ammettere ma qualcosa mi ha fatto spuntare le lacrime agli occhi, e piangere è una cosa che non mi è più successa da quando ero un bambino di due o tre anni . Perché ora sto rallentando per farmi raggiungere da Gunthorpe e lo faccio proprio nel punto in cui il viale curva e si immette nel campo sportivo: dove possano vedere quello che faccio, specie il direttore e la banda dei suoi amici in tribuna d’onore e vado così piano che quasi segno il passo. No gli faccio vedere io  che significa onestà, foss’anche la mia ultima impresa, per quanto sono sicuro che non capirà mai.
<<Corri !>>, (8° inn) urlavano con le loro voci educate. << Corri!>>. Ma io ero sordo cieco e scimunito e rimasi là dov’ero, con il sapore della corteccia e sempre piangendo come un bambino, piangendo di gioia perché finalmente li avevo battuti.
Perché udii un urlo  e vidi quelli di Gunthorpe buttare le giacche in aria e sentii lo scalpiccio sul viale alle mie spalle avvicinarsi  sempre di più e d’un tratto una puzza di sudore e un paio di polmoni all’ultimo respiro mi sorpassarono e continuarono la corsa barcollando verso quella corda, spompati e ciondolanti da una parte all’altra, mentre il loro proprietario grugniva come uno zulù che non sa più da che parte ha la testa, come il fantasma di me stesso a novant’anni quando mi dirigo verso quella cassa ben imbottita. Avrei potuto applaudirlo anche io: <<Dai , dai ,corri. Impiccati con quel pezzo di nastro>>. Ma era già arrivato, e allora ripresi la gara , trotterellando dietro di lui, finchè non raggiunsi la corda e svenni, assordato dall’urlo feroce e tonante che mi entrò nelle orecchie mentre ero ancora a terra.
Siamo quasi alla fine: ma non pensate che io non stia correndo ancora, perché è così,  in un modo o nell’altro.

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