2° tappa: Libreria Martin Eden, Fucecchio

Le letture che si alterneranno il giorno 25 proverranno da tre libri
"Etica Trattato teologico-politico", Spinoza
“Il codice di Perelà”, Aldo Palazzeschi
“Walden. Ovvero vita nei boschi”, Henry D. Thoreau

I lettori leggeranno una pagina a testa alternando i due testi.
Sulle ultime battute della lettura il lettore per dare un segno dell’alternanza si alzerà lasciando il posto all’altro lettore mentre il lettore successivo entrerà immediatamente con l’altra lettura.
E’ importante non lasciare pause tra una lettura e l’altra

Ordine letture:
incipit Spinoza Beatrice Meoni
lettura 1 Palazzeschi Renzo Boldrini
letttura 2 Thoreau Valeria della Mea
lettura 3 Palazzeschi Samuele Petrocchi
lettura 4 Thoreau Stefano Torriti
finale Spinoza David Baldanzi

E’ gentilmente richiesta la presenza dei lettori dalle 17,30 per concordare o verificare eventuali problemi. E’ richiesta puntualità.
Il testo verrà fornito ai lettori il giorno prima della lettura.
La lettura sarà videoregistrata e il materiale usato per l’installazione finale.
Beatrice Meoni inizierà le letture e il proprietario della libreria la concluderà.
Non ci sarà alcuna presentazione dei libri letti, una nota dei nomi dei lettori e dei testi sarà esposta in libreria.
Le letture si concluderanno con un piccolo rinfresco.

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INCIPIT

Gli uomini immaginano dunque due potenze numericamente distinte l’una dall’altra, cioè la potenza di Dio e la potenza delle cose naturali, sebbene questa sia in un certo modo determinata o (come la maggior parte preferisce ritenere) creata da Dio. Che cosa poi intendano per natura, lo ignorano del tutto, a meno che non immaginino la potenza di Dio come il potere di qualche maestà regia e quella della natura come forza e impulso.

Il volgo dunque chiama “miracoli” ossia opere di Dio, i fatti insoliti della natura,e un po’ per devozione, un per la voglia di contrastare coloro che coltivano le scienze naturali, desidera non conoscere le cause naturali delle cose, e arde dal desiderio di sentir parlare soltanto di quelle cose che soprattutto ignora e che, perciò, soprattutto ammira. Ciò è evidente, il volgo può adorare Dio e riferire tutte le cose al suo potere e alla sua volontà in quanto immagina la potenza della natura sottomessa a Dio.

Ciò sembra abbia tratto origine dai primi giudei, i quali, per convincere i pagani del loro tempo che adoravano divinità visibili – il sole , la luna, la terra, l’acqua e l’aria, e per mostrare loro che quelle divinità erano deboli e instabili, ossia mutevoli, e soggette al potere del Dio invisibile, raccontavano dei miracoli, con i quali si sforzavano di mostrare che tutta la natura era diretta da potere del Dio che essi adoravano a loro esclusivo vantaggio. E ciò riuscì tanto gradito agli uomini che fino ai nostri giorni costoro non hanno cessato di fingere miracoli per farsi credere più graditi a Dio degli altri, e causa finale per la quale Dio ha creato e continua a dirigere tutte le cose



LETTURA1

Il poeta Angiolino Dal Soffio
- Quando ho udito pronunciare il vostro nome per la via, passeggiavo con la mia amante, bionda come Venere e come Isotta. Il nome che sulle volgarissime labbra della plebe mi aveva lasciato indifferente, assunse su quelle di lei il vero significato. Le ho fatto ripetere il vostro nome tante volte, come ogni sera prima di spegnere il lume le faccio ripetere tante volte la parola eterna. Quali analogie, quali concomitanze. Sulle sue labbra Pe…re…là… Lo si vede fuggire rapido e leggero, come si vede partire per innalzarsi lieve, delicatamente, la parola: Po…e…si…a… Sentite tutto il fascino di questa parola maliarda? Che cos’è mai una p su quelle labbra, signor Perelà, come la forza del brivido che anima e dà la vita. Chi mi soccorrerà a dirvi che sia una s che di sotto la sostiene e la solleva, e la spinge, spingi , spingi, su … più su … sempre più su…la poesia, signor Perelà è un mondo, un globo tutto d’oro, d’oro soltanto di quello che non fa moneta, ed è il poeta, sul Pernaso che lo gonfia con il suo alito divino. E lo prepara per l’ascensione celeste. L’arte qual è? Saperlo gonfiare fino a renderlo trasparente perché possa innalzarsi con leggerezza e rapidità, fino a renderlo incandescente perché tutto il mondo lo possa ammirare, perché tutto i lmondo lo veda.
- E voi salite con lui?
- Un corpo estraneo? Ohibò ! Se mi ci attacco io addio Gesù, quello non sale altrimenti, resta in terra per sempre. Quando l’ho ben gonfiato lo mando via, io resto sul Parnaso.
- Dovete sorvegliare il vostro globo perché nulla vi capiti mentre lo gonfiate
- Non vi è dubbio, basterebbe un granellino della più semplice materia e quello non salirebbe. Pare ci sia dentro chi lo sa che, in questo globo abbagliante, e invece non c’è nulla. Ottenere il vuoto è l’arte sublime del poeta. Quale innocenza, e che difficoltà: questa è leggerezza. Comporrò in vostro onore un inno di tredicimila versi endecassillabi e un settenario sdrucciolo, ve lo manderò pubblicato sulla più autorevole rivista del paese. Eccovi intanto il mio ultimo libro di versi: Ballate…malate.
- Peccato poverine
- Di che male soffrono?
- Stanno magnificamente.
- E perché dite che sono malate?
- Altrimenti nessuno si occuperebbe della loro salute. E se ne occupano pochissimo anche così. Se le vedessero crepare tutte insieme non avrebbero un sospiro per esse, viviamo in tempi di materialismo, senza poesia e senza cuore. Contate sulla mia amicizia, io spero contare sulla vostra, non siamo infondo che due poeti e potremmo scrivere un poema in collaborazione. Lo scriveremo ne ho piena fede. Verrà dopo di me Cristoforo Soffiato, il critico signor Perlà, messo al mondo per farmi disperare. Vi supplico di non credere a una delle sue parole, è fuori che attende, aspetta che sia uscito per entrare, viene sempre dopo di me, è la sua inferiorità, ma ce l’ho sempre alle calcagna, è la mia dannazione. Vi parlerà di me senza dubbio. E di che vi potrebbe parlare un chiacchierone, un poltrone; Monsieur de Perelà, J’espere bien tot de vous rencontre dans le monde.

Cristoforo Soffiato, critico della letteratura nazionale ufficiale.

- Non vi meravigliate e mi presento a voi dopo quell’infelice. Volle la sorte ch’ io dessi a lui la precedenza, ma ciò non accadrà per molto ancora, e vedrete le cose camminare alla rovescia.
- Chi, l’uomo del pallone?
- Lui in persona. Può aspettare benissimo a cantare quando io abbia parlato, non vi pare? Tanto sappiamo in precedenza quello che dirà, dalla prima parola all’ultima.
- E ve lo fa vedere gonfiato o da gonfiare?
- Che cosa?
- Il pallone.
- Me lo fa vedere gonfiato.
- E voi dovete andare lassù dov’ei lo manda?
- Che cosa?
- Il pallone.
- No, ci va lui, figuratevi un poco, io non mi sposto di un millimetro, ho il cannocchiale. Conoscete il cannocchiale della critica? E’ il più lungo di tutti, ma è quello che si ripiega meglio. Lo porto nel taschino del panciotto: guardate.



LETTURA2

In una certa stagione della nostra vita, noi siamo soliti considerare ogni pezzo di terra come possibile luogo di dimora. A tale scopo, ho ispezionato la campagna da ogni parte, per un raggio di dodici miglia a partire dalla zona in cui vivo, e, l’una dopo l’altra, ho acquistato con l’immaginazione, tutte le fattorie là attorno, perché tutte erano in vendita, e di tutte io conoscevo il prezzo. Attraversai le terre di ogni contadino, assaggiai le sue mele selvatiche, parlai con lui di agricoltura, comperai il suo podere al prezzo richiesto-qualunque esso fosse-e mentalmente glielo ipotecai; gli offrii anzi un prezzo più alto, e mi feci dare tutto meno l’atto di vendita, in cambio del quale mi bastò la sua parola, perché mi piace molto chiacchierare; coltivai la terra e, in qualche modo, credo, lui stesso: e quando ebbi finito, mi ritirai, lasciandolo a continuare l’opera che aveva iniziata. Quest’esperienza spinse i miei amici a considerarmi una specie di sensale di beni immobiliari.
Potevo vivere dovunque mi fermassi, e il paesaggio m’appariva amico dovunque, Cos’è mai una casa, se non una sedes, una sede? Meglio se è una sede rurale. Scoprii molti luoghi, adatti per costruirvi una casa, e tali che sarebbe stato difficile trovarne di migliori; qualcuno forse li avrebbe considerati troppo lontani dal villaggio, ma per me era il villaggio che era troppo lontano. Allora mi dicevo: “Potrei vivere là”. E per un’ora vi trascorrevo una vita, d’estate e d’inverno; vedevo come avrei potuto passarvi gli anni, affrontare la stagione fredda, veder giungere la primavera. I futuri abitanti di questa regione, dovunque piantino le loro case, posson star sicuri d’esser stati preceduti.

Mi bastava un pomeriggio per trasformare quella terra in un frutteto, un boschetto, un pascolo, e per decidere quali belle querce e quali bei pini si dovesse lasciare in piedi, davanti alla porta, e da dove ciascun albero potesse essere visto nel modo migliore; poi la lasciavo, anche incolta, poiché un uomo è ricco in proporzione al numero di cose delle quali può fare a meno.

Il vecchio catone, il cui De Re Rustica è il mio manuale di coltivazione (ma l’unica traduzione che ne vidi rende il brano assurdo), dice “Quando avete intenzione di acquistare un podere pensateci su ben bene, e non comperatelo con bramosia; procurate di osservarlo con attenzione, e non vi sembri mai abbastanza averlo percorso e guardato una sola volta. Più lo conoscerete e più vi piacerà, se veramente vale qualcosa”. Credo che non comprerò mai un podere con bramosia, ma che lo girerò e percorrerò finchè vivo, e che prima vi sarò sepolto - affinchè, alla fine, esso mi piaccia di piu.

L’attuale fu il mio ultimo esperimento del genere, e mi sono proposto di narrarlo con maggior copia di dettagli; per maggiore comodità, riassumerò l’esperienza di due anni in uno solo. Come ho detto non è mia intenzione scrivere un’ode allo sconforto, bensì vantarmi con tutte le mie forze, come il gallo che al mattino sta sulla sua pertica, non fosse altro che per svegliare i miei vicini.

Quando per la prima volta mi stabilii nei boschi, vale a dire quando cominciai a passarvi i giorni e le notti, era, per caso, il 4 luglio 1845, cioè l’anniversario della Proclamazione d’Indipendenza: La mia casa non era finita, ancora, perché vi potessi passare l’inverno; adesso era soltanto una difesa contro la pioggia, senza intonaco o camino, e le pareti erano di rozze tavole di legno, segnate dal tempo e con ampie fessure, cosicché la notte vi faceva freddo. Gli stipiti, dritti e bianchi e appena tagliati, la porta appena piallata, e i telai delle finestre, le davano un carattere pulito e arioso, specialmente alla mattina, quando le tavole erano così gonfie di rugiada che immaginavo dovessero trasudare un dolce succo quando, a mezzogiorno,il sole le avrebbe asciugate. Per la mia immaginazione, essa conservava per tutto il giorno questa peculiarità dell’aurora, e mi ricordava una casa di montagna che avevo visto l’ anno prima. Questa era una capanna ariosa e senza intonaco, atta ad alloggiare un dio viaggiatore, e dove una dea avrebbe potuto trascinare le vesti. I venti che passavano sopra la mia abitazione erano come quelli che sfiorano le sommità delle vette, portavano melodie interrotte o, forse solo i frammenti celesti, di una musica terrena



LETTURA3

Signor Perelà, ecco il prato dell’amore.
- Si amano tutti costoro?
- S’amano o credono di amarsi, tutti credono nell’amore. L’amore nasce da un incontro, è una scintilla che investe. Uno ama e uno si lascia amare di tanti cuori a picche, quello che ama è sicuro di essere amato tanto è felice, e quello che si lascia amare è sicuro d’amare per la potenza dell’amore. Un dolce inganno
- E se si amassero tutti e due insieme?
- Quando la scintilla investe le due parti contemporaneamente produce un incendio che rappresenta l’amore più pericoloso e il più fallace, quello che si esaurisce prima. O altrimenti camminerebbero senza incontrarsi mai, come le linee parallele.
- E se nessuno dei due si amasse?
- .Non verrebbero qui, andrebbero direttamente in un albergo di infimo ordine.
- E il loro amore dove li conduce?
- Per le vie che sono infinite, che tutti percorrono e che nessuno riuscì mai a conoscere.
- Il grande prato rotondo è circondato da un viale dove i magnifici ippocastani vanno anch’essi due a due producendo salutari ombre, e nel mezzo in un numero infinito s’aggirano le coppie. Stretti uno all’altro, le mani avvinte e la vita intrecciata da esse, le teste unite una sull’altra le bocche che sussurrano e sorridono alla felicità dell’amore, si fissano le pupille per bramosia di potersi penetrare possedere. Nessuno pone attenzione a quanto gli accade intorno, due occhi non sanno vederne che altri due.
- Che cosa dicono costoro?
- Parlano il linguaggio dell’amore: Potreste supporre che i più svariati e brillanti argomenti vengano trattati per ricevere tanta attenzione. Uno soltanto, e il loro repertorio può giungere fino a poche frasi uguali per tutti e uguali per sempre. Taluno ne ha disponibili due o tre che ripete senza fine e sembrano nuove come la prima volta che le disse: più le ripete più son belle. O compone la propria eloquenza di lunghissimi silenzi rotti da parole tronche e rade. Come le grandi opere del creato l’Amore non ha bisogno di parole, quelle cose che gli uomini chiamano mute perché il loro linguaggio non possono capire Dalla cima del prato si parte per il viale erboso di un verde abbagliante, fiancheggiato da pioppi che riflettono le loro ombre di vecchi lunghi e storti, scheletriti: sembra di cavalcare sulla schiena di una zebra.
- Gli amanti vanno e vengono , si seguono senza guardarsi, e s’incrociano sulle ombre magre: sembra di cavalcare sulla schiena di una tigre: Senza essere osservati si passa, si va e si giunge nel brulicare di tante coppie.
- Pensan costoro?
- Mai più. Il motore spento per l’abbandono totale, senza di che non esiste felicità nell’amore. Ognuno riversa, e per intero, la propria vita nell’altro, e non appena interviene il giudizio, l’amore si estingue.
Giunti al limite estremo del viale, lo si vede lungo e diritto davanti e infondo, quasi vi fosse appeso, un grande disco: il prato dell’amore.
In un soave ondeggiamento di culla si muovono le coppie, i pioppi si sono avvicinati formando un arco che ricopre, anche gli ippocastani si fondono, tutto si muove in languido sopore di vertigine, oscillazioni lente e uguali, la lunga asta del viale e il grande disco verde; il pendolo. Il gigantesco pendolo che segna agli uomini l’istante.
- L’ora è avanzata signor Perelà
- Costoro rimangono?
- Dopo il calar del sole se ne vanno, voi li vedreste sfilare via, lontano,due a due, e un po’ frettolosi e infreddoliti dirigersi alla città per mescolarsi all’altra gente… Ma se poi vi piacesse a buio fatto di tornare, e a caso vi inoltraste nel prato udireste dei sospiri qua e là e un soffocato bisbiglio.
- Qualcuno era rimasto?
- Sì
- Anche nell’oscurità della notte il pendolo va….va …va…va..senza arresto nella regolare oscillazione.



LETTURA4

La mia abitazione era più favorevole di una università, non solo al pensiero ma anche alla lettura seria; e sebbene fossi oltre il raggio di circolazione dell’ordinaria biblioteca circolante, sentivo ancora di più l’influenza di quei libri che circolano intorno al mondo, le sentenze dei quali furono scritte anticamente su corteccia d’albero, e che ora vengono semplicemente copiate di tanto in tanto, su carta di lino. Il poeta Mir Camar Uddin Mast dice “Restare seduto e percorrere la regione del mondo spirituale; ho sperimentato questo vantaggio con i libri. Ubriacarsi con un solo bicchiere di vino; ho provato questo piacere bevendo il liquore delle dottrine esoteriche.” Per tutta l’estate tenni sul mio tavolo l’Iliade di Omero, sebbene leggessi solo di tanto in tanto.

Intanto i miei fagioli, i cui filari già piantati raggiungevano, messi in fila, la lunghezza di sette miglia, erano impazienti di essere zappati; i più vecchi erano notevolmente cresciuti ancora prima che gli ultimi fossero nel terreno: davvero, non era facile liberarsene. Cosa significasse questa regolare, orgogliosa, piccola fatica erculea, io non lo sapevo. Giunsi ad amare i miei filari, i miei fagioli, sebbene fossero molti di più di quanti me ne occorressero. Mi attaccavano alla terra, e così ne ricevevo forza, come Anteo: Ma perché dovevo coltivarli? Solo il cielo lo sa. Questo fu il mio curioso lavoro per tutta l’estate: far sì che questa porzione della superficie terrestre, che fino a quel momento aveva dato solo pentafogli, more, iberico e simili, e frutta selvaggia e fiori gentili, producesse invece questi legumi: Che dovrò imparare dai fagioli, o cosa impareranno essi da me? Li curo con affetto, li zappo, ho sempre un occhio su di loro; e questo è il mio lavoro giornaliero: A guardare la foglia è bella e larga. Miei aiutanti sono le rugiade e la pioggia che versano acqua su questo suolo secco, e la stessa fertilità della terra, che per la maggior parte è magra ed esausta. Miei nemici sono i vermi, i giorni freddi , e soprattutto le marmotte. Queste mi hanno rosicchiato via un quarto di acro. Ma che diritto avevo di soppiantare l’iperico e il resto, e di rompere il loro antico giardino di erbe aromatiche? Subito, tuttavia, i fagioli rimasti sarebbero stati troppo duri per le marmotte, e avrebbero dovuto affrontare altri nemici: Mi ricordo bene che quando avevo quattro anni mi portarono a Boston a Concord, proprio attraverso questi boschi e questo campo, fino al lago. E’ una delle scene più antiche impresse nella mia memoria. E ora, questa notte, il mio flauto ha risvegliato gli echi proprio sopra quell’acqua. Qui i pini si ergono ancora, più vecchi di me; oppure, se qualcuno di essi è caduto, mi sono cucinato la cena con i suoi monconi e un nuovo arbusto sta crescendo all’intorno, preparando un’altra visione per nuovi occhi infantili. E’ quasi lo stesso d’allora, l’iperico che spunta dalla medesima perenne radice, in questi pascoli; e alla fine ho persino aiutato a rivestire quel favoloso paesaggio dei miei sogni infantili, e uno dei risultati della mia presenza e del mio influsso lo si vede in queste foglie di fagiolo e di grano e in questi cespugli di patate..

Piantai circa due acri e mezzo in altura; e poiché il terreno era stato disboscato solo quindici anni prima, e io stesso ne avevo ottenuto due o tre fascine di tronchi, non lo concimai; ma nel corso dell’estate, zappando, portai alla superficie alcune punte di freccia, e in tal modo apparve che una nazione estinta aveva anticamente abitato questo luogo, piantandovi i suoi fagioli e il suo grano , prima che venisse l’uomo bianco a disboscare la terra; e così , fino ad un certo punto, quegli antichi abitatori avevano esaurito il terreno per questo stesso raccolto.

La mattina presto lavoravo a piedi nudi, divertendomi come uno scultore con la sabbia rugiadosa e granulosa; più tardi però, il sole mi copriva i pedi di vesciche. Là il sole mi illuminava a zappare fagioli mentre andavo avanti e indietro, lentamente, su quella gialla e sassosa terra di collina, tra le file verdi lunghe quindici pertiche, che terminavano da un lato su un cespuglio di querce, dove potevo riposarmi all’ombra, e dall’altro su un campo di more dove le bacche ancora verdi offuscavano i loro colori nel tempo e io facevo un altro giro. Rimuovere le erbacce; mettere terra fresca attorno ai gambi dei fagioli, e incoraggiare quest’erba che avevo piantato; fare sì che il terreno giallo esprimesse il suo pensiero estivo in foglie e fiori di fagiolo, piuttosto che in erba verminaria, erba cornamusa e miglio; fare che la terra dicesse “fagioli” invece che “erba”- ecco il mio lavoro quotidiano.



FINALE

Niente accade contro la natura, ma questa conserva in eterno un ordine fisso e immutabile.
Se in natura avvenisse qualcosa che ripugna alle sue leggi universali, ciò ripugnerebbe necessariamente al decreto, all’intelletto e alla natura di Dio, ovvero se qualcuno affermasse che Dio opera qualcosa contro le leggi della natura, costui sarebbe, insieme, costretto ad affermare pure che Dio agisce contro la propria natura – cosa della quale niente è più assurdo. La potenza della natura, infatti, è la stessa potenza e virtù di Dio.
Perciò da queste cose segue chiarissimamente che il nome “miracolo” non può essere inteso se non rispetto alle opinioni degli uomini, e non significa nient’altro che un fatto del quale non possiamo spiegare la causa naturale sull’esempio di un’altra cosa consueta o almeno non può spiegarla colui che scrive o racconta il miracolo. I miracoli avvengono rispetto alla capacità del volgo il quale ignora completamente i principi delle cose naturali.