domenica 4 dicembre 2011

Diario senza inizio. Venezia.

NOVE,  numero perfetto


Mi sento felice. Me lo dico la sera addormentandomi e poi al mattino appena sono in grado di pensare, sul treno, in quel tratto di laguna che va dalla stazione di Venezia Santa Lucia a quella di Venezia Mestre. Me lo dico guardando il lento lentissimo muoversi di un’imbarcazione a remi, chiedendomi chi mai saranno quegli uomini su quella barca e cosa faranno:  si allenano, lavorano, sono in gita domenicale nella nebbia?
E mentre guardo fuori dal finestrino mi accorgo di cercare le parole:  è difficile e imbarazzante, si sa,  dirsi e sentirsi felici, mi chiedo se anche per Bea stamani il risveglio sia così, o se per riserbo e sobrietà i suoi sentimenti siano più composti. Ieri è andata bene. La tappa veneziana di Talee, bloccata, rimandata, rinviata, preparata nella diaspora dei suoi protagonisti,  è andata bene. Forse è andata così come ci eravamo sempre immaginate che sarebbe andata prima o poi: il libro scelto e amato dal libraio che ci ospitava, la libreria super-indipendente scelta e amata dai lettori, e la performance-reading semplice e perfetta, come le nuove Talee di Beatrice e anche i nuovi lavori di Beatrice, esposti in Galleria. Forse è anche questo doppio passo che concorre a formare questo sentimento di soddisfazione, poter fare  la strada, in questo case la calle, che ha portato da un luogo in cui l’arte entra in modo non ufficiale – la libreria – a un luogo in cui l’arte è di casa – la galleria. E poi  Luca e Virginia e rendersi conto del fatto che bisogna saperle dire, o scandire, o urlare le parole perché abbiano un senso. Senza Luca e Virgina, senza i loro “corri, corri”, la lettura de “La Solitudine del maratoneta” sarebbe stata bella, ma un’altra cosa. E poi lo stare insieme, prima con i lettori, così curiosi di partecipare a una cosa nuova, mai fatta, e così curiosi del progetto, poi con quelli che ci hanno seguito in galleria, e quelli che ci hanno raggiunto, come Maddalena, amica di sempre. E poi l’accoglienza di Elena così (è il caso di dirlo anche se la parola suona formale) “impeccabile”. 
Mentre scrivo e penso sono già a Padova e poi a Bologna, il treno va veloce ma è anche il tempo che scorre senza intoppi  e penso a quello che abbiamo letto ieri sullo strano sincronizzarsi di movimenti e pensieri, sul di più di  velocità che viene dal dimenticarsi di  correre:  “Perché, vedete, io non gareggio mai - si dice il maratoneta di Allan Sillitoe -  io corro soltanto, e in qualche modo so che se mi dimentico la gara e mi limito a tenere un buon passo finché non so più che sto correndo, vinco sempre. Perché quando i miei occhi si accorgono che sono vicino alla fine del percorso perché riconosco una barriera per il bestiame o l’angolo di un casolare- faccio uno scatto, e posso farlo così veloce perché fino a quel momento ho l’impressione di non aver corso affatto e di non aver sprecato la minima energia. E ci sono riuscito perché ho continuato a pensare; e mi domando se sono l’unico corridore al mondo con questo sistema di dimenticare che sto correndo perché sono troppo occupato a pensare; e mi domando se qualcuno degli altri ragazzi conosce il mio trucco…”.
E come se non fossi abbastanza gongolante, grazie alle meraviglie dell’esser sempre super-connessi (meraviglie che in altri momenti giudicherei una sventura), mi arriva una mail così:
“Da un'infinità di tempo non vedo Venezia (dieci anni). Suggestivo il racconto che avete letto per Talee. Prendi Proust, fallo correre tre volte la settimana, accorciagli il fiato e quasi quasi...”


Beh, la chiudo così. Grazie a tutti.

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